Nella Repubblica dei Tar muore la politica. Perché la politica consiste, anche se non si esaurisce, nell’arte di governare e quando si abbandona tra le braccia della magistratura, chiamando quest’ultima ad esercitare un’impropria supplenza, non fa che certificare la sua irrilevanza. È così che i tribunali amministrativi regionali (Tar) sono diventati il rifugio degli irresponsabili ed il braccio armato dei cercatori di visibilità mediatica, il surrogato della politica più appetito dai benaltristi di ogni ordine e grado.
Di questa pluridecennale parabola il caso Ilva costituisce senza dubbio il punto più alto. Il governatore della Regione Puglia Michele Emiliano ed il sindaco di Taranto Rinaldo Melucci hanno deciso di impugnare il decreto con cui il governo ha approvato il piano industriale di ArcelorMittal davanti al Tar del Lazio.
Ora un investimento da oltre cinque miliardi, di cui più di due indirizzati al risanamento ambientale, il più ingente che si sia visto al sud negli ultimi 30 anni, rischia di finire gambe all’aria. E una città che è stata tenuta nell’incertezza per cinque anni, da quando cioè la magistratura tarantina ordinò il sequestro senza facoltà d’uso dell’area a caldo, vede spalancarsi davanti a sé il baratro dell’ignoto.
Proviamo a metterci nei panni del top management di ArcelorMittal: perché non dovrebbero “darsela a gambe”, per usare le parole del ministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda?
Lo zelo ambientalista di Michele Emiliano è noto. Il governatore vuole un’Ilva ad emissioni zero, praticamente: basta carbone – è il suo motto – lo stabilimento deve “girare” solo a gas. È la mitica “decarbonizzazione”, il Sacro Graal evocato in mille interviste, il totem cui deve ispirarsi qualsiasi idea di rilancio dell’Ilva di Taranto. Il problema è che non esiste un’acciaieria alimentata completamente a gas sulla faccia della terra. E che il gas -problema non proprio secondario – bisogna in qualche modo procurarselo. In soccorso potrebbe venire il gasdotto Tap, il cui approdo è stato localizzato proprio in Puglia. Ma ad Emiliano non piace nemmeno il Tap: non è che non lo vuole, vorrebbe solo piazzarlo da un’altra parte (i maligni dicono fuori dal suo feudo elettorale, ma si tratta appunto di malignità).
Per il resto, il diktat cui ora si ribella il duo Emiliano-Meletti, vale a dire il Dpcm varato dal governo a fine settembre, non fa che riproporre, con alcune modifiche, l’Aia (Autorizzazione integrata ambientale) approvata nel 2014, un documento che ha ricevuto il placet pure di Regione e Comune. Non si capisce bene cosa sia cambiato da allora, ma il sospetto che le elezioni imminenti e l’eterna faida all’interno del Pd c’entrino qualcosa non pare campato in aria.
Il clima politico, quello sì, è cambiato. La lunga battaglia attorno all’Ilva ha lasciato sul terreno macerie e fatto emergere sulla scena pugliese gli unici due modelli di politico che in Italia oggi fanno fortuna, però elevati al quadrato: il duro e puro, quello pronto a tutto e capace di nulla, e il populista – benaltrista, l’agitatore inconcludente che semina paure invece che soluzioni, che lascia agli altri il compito di sporcarsi le mani mentre tiene in tasca le sue. Giudichi chi legge a chi corrispondono questi due identikit. Forse per farsi un’idea può essere utile ricordare che in dodici pagine di programma elettorale il candidato – sindaco Melucci non citava mai direttamente l’Ilva, che compariva come un fantasma solo in un fugace passaggio sul risanamento ambientale ed i problemi sanitari connessi. O magari riandare al referendum del 2013 sulla chiusura dell’Ilva, che registrò un flop inglorioso (affluenza al 19%, nemmeno il 10% al quartiere Tamburi), per comprendere come certi umori, benché ultraminoritari, a Taranto circolassero da tempo.
La vicenda dell’Ilva è anche una sequela di gattopardate. Una vicenda nella quale – lo ha ricordato di recente in un articolo su Il Foglio il segretario della Fim Cisl Marco Bentivogli – tutti chiedono giustizia ma nessuno la vuole sul serio, e il conto alla fine arriva sempre agli stessi, cioè ai lavoratori. Vale anche per la magistratura, che per Bentivogli deve essere sempre libera di intervenire, valutando però attentamente la portata delle sue azioni nei confronti delle persone che non portano alcuna responsabilità delle decisioni assunte da altri. Perché “non può essere colpa dei lavoratori se a Taranto ambiente e sviluppo non hanno fatto passi avanti per l’incapacità di conciliare questi due obiettivi”.
Tenere insieme lavoro e ambiente, del resto, non è una chimera, nemmeno nell’industria siderurgica. A Linz, in Austria, l’impianto siderurgico che si trova a ridosso della città non inquina ed è fonte di reddito, lavoro e benessere per tutta la città. Merito, evidentemente, anche di una classe politica che non pensa di risolvere tutto con i Tar. Perché non saranno i Tar a tenere in vita 20mila posti di lavoro la cui sopravvivenza è legata al piano industriale che deve coniugare l’occupazione con la tutela dell’ambiente e della salute.