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Chi e perché difende il Jobs Act (anche da Renzi)

Matteo Renzi, Draghi

Jobs Act, immigrazione e welfare. Ecco quali sono, a giudicare da tutti i retroscena giornalistici, i tre capitoli che Matteo Renzi sarebbe disposto a riscrivere (almeno un po’) per compiacere la sinistra-sinistra, i Radicali, i Verdi, i Socialisti, eccetera, in vista delle prossime elezioni politiche. Eppure ci sono ottime ragioni per sperare che il segretario del Partito democratico non si muova di un millimetro su certi temi. Innanzitutto, appunto, sul Jobs Act.

La riforma del mercato del lavoro varata tra il dicembre 2014 e il marzo 2015 è tirata in ballo ogni mese, quando l’Istat pubblica i numeri sull’andamento di occupazione e disoccupazione. Al netto di tante inesattezze, i temi su cui ci si accapiglia finiscono per essere due: il numero di posti di lavoro creati dalla legge e il tipo di posti di lavoro creati dalla legge. Sul primo tema, Renzi la scorsa estate ha detto che il Jobs Act ha creato quasi un milione di posti di lavoro: è stato impreciso, nel senso che alla scorsa estate c’erano 918mila “occupati” in più (e non posti di lavoro) da un anno prima, ma la sostanza statistica era esatta. Dove Renzi sbagliava di grosso – a dire il vero in compagnia di tutti coloro che imputano al Jobs Act di aver “creato troppi pochi posti di lavoro” – è nell’assumere che il cambiamento di alcune norme giuslavoristiche possa “creare” di per sé più lavoro. Pensare ciò vuol dire da una parte sorvolare sugli sforzi titanici di tanti operatori privati che si conquistano la possibilità di assumere grazie al sudore della loro fronte, dall’altra significa dimenticare come nulla fosse che l’Italia è il paese che continua a crescere più lentamente di tutta l’Eurozona. Ergo, nel bene e nel male, i fattori che influenzano il numero di assunzioni in questa fase storica sono ben più profondi e potenti di un semplice articolato di legge.

 I LIMITI (EFFETTIVI) DEL JOBS ACT

Di diverso tipo, e più fondata, la critica sul “tipo” di posti di lavoro nati dopo l’approvazione del Jobs Act; il contratto a tutele crescenti infatti – con gli annessi sgravi fiscali – fu pensato per diventare più attraente rispetto al contratto a tempo determinato, ma per una serie di ragioni – inclusi alcuni incentivi contraddittori introdotti dal legislatore – questa sostituzione in massa di contratti a tempo determinato con contratti a tempo indeterminato non c’è stata. Anzi. Dal settembre 2016 al settembre 2017, ricorda l’Istat, i lavoratori dipendenti sono aumentati di 387mila unità (gli autonomi sono calati di 60mila), 361mila con contratti a termine e 26mila a tempo indeterminato.

Il Jobs Act dunque ha dei limiti. Questi limiti consigliano forse di ritoccare le norme sul lavoro per ritornare al vecchio articolo 18 sui licenziamenti, come vorrebbe certa sinistra, una parte del mondo sindacale, e la destra più statalista? Assolutamente no. Perché se è vero che il Jobs Act rimane perfettibile, allo stesso tempo è indubbio che quella riforma di tre anni fa sta contribuendo a rendere il mercato del lavoro italiano un po’ più “occidentale”, “liberale”, verrebbe da dire “normale”. (E tutto questo al netto, lo ripetiamo, di una crescita economica che per tanti altri fattori rimane asfittica).

 NON LEGGETE DEMOCRATICA, MA IL POCO RENZIANO BOERI

A spingere verso tali conclusioni non è l’ultima elaborazione dati di Democratica, il foglio ultra renziano del Pd, ma una ricerca appena pubblicata da Tito Boeri (presidente dell’Inps, bocconiano e non esattamente renziano) e Pietro Garibaldi (Università di Torino). I due studiosi, numeri alla mano, ricordano che la riforma renziana si componeva di due gambe: la decontribuzione per le nuove assunzioni a tempo indeterminato (dicembre 2014) e il contratto a tutele crescenti (marzo 2015) che, in linea con la legge Fornero del 2012, superava l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori abolendo di fatto la reintegra obbligatoria in caso di licenziamento. La seconda gamba della riforma era destinata ad avere un valore maggiore per le imprese che superano i 15 dipendenti, visto che il vecchio articolo 18 già non si applicava a quelle con meno di 15 dipendenti. Boeri e Garibaldi dimostrano che effettivamente, a partire dal marzo 2015, 1) c’è un aumento di circa il 20% delle imprese che sono a ridosso della soglia dimensionale dei 15 dipendenti e che optano per superare tale soglia; 2) le imprese con più di 15 dipendenti iniziano ad assumere di più con contratti a tempo indeterminato rispetto alle (molto più numerose) imprese con meno di 15 dipendenti; 3) le stesse imprese più grandi licenziano di più rispetto alle più piccole; 4) non si registra una divergenza significativa tra i due gruppi sull’uso dei contratti a tempo determinato. Insomma, dall’introduzione del contratto a tutele crescenti, il mercato del lavoro – per le imprese con più di 15 dipendenti – diventa più ampio, più mobile e più flessibile. Non è affatto poco per il paese delle molte foreste pietrificate.

 IL JOBS ACT MUOVE PURE IL MOLOCH DELLA GIURISPRUDENZA ANTI MERCATO

Se già in condizioni normali un cambiamento di norme non può generare di per sé posti di lavoro, il maggiore dinamismo registrato da Boeri e Garibaldi va apprezzato ancora di più nel contesto italiano, dove è noto lo strapotere dei giudici del lavoro nell’interpretare e applicare la legislazione inerente il mercato del lavoro. Qui lasciamo la parola all’avvocato Luca Failla che, nell’inserto “L’Impresa” del Sole 24 Ore, nota un aspetto finora perlopiù taciuto dagli analisti: “Un dato è certo ed è che con l’avvio a regime della riforma e, probabilmente, anche con l’applicazione pratica che è stata fatta del novellato art. 18 L.300/1970 negli ultimi cinque anni, la materia ha ricevuto una significativa evoluzione. Ne è segno evidente l’orientamento che si sta affermando in Cassazione in materia di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. (…) Tra le ragioni che giustificano questa forma di licenziamento troviamo oggi, in modo significativo, l’apertura da parte della giurisprudenza verso ragioni caratterizzate dall’obiettivo di salvaguardare la competitività dell’azienda nel proprio settore di riferimento e l’efficienza gestionale e produttiva della stessa (Cass. Civ. 25201/2016 e più recentemente ord. 19655/2017)”. Insomma, i giudici – bontà loro – ammettono che si possa licenziare anche per riorganizzare l’azienda e per facilitarne il funzionamento, e non soltanto perché si è sull’orlo del fallimento. Nell’anno di grazia 2017, in Italia, l’affermazione di questo basilare principio di buonsenso – prim’ancora che di mercato – va salutata positivamente. Se il Jobs Act avesse contribuito pure in minima parte a tutto ciò, ristabilendo la legge di gravità in un groviglio di norme sul lavoro che svolazzavano nell’iperuranio dell’ideologia, esso meriterebbe solo per questo motivo di essere difeso a spada tratta. Anche da ogni arretramento di Matteo Renzi per supposte ragioni elettoralistiche.

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