Papa Francesco arriva oggi in Myanmar per il suo ventunesimo viaggio all’estero, che lo porterà anche in Bangladesh, dove farà tappa giovedì. È una delle visite pastorali più complicate di sempre, perché lo porta nella terra in cui si sta consumando il dramma di quelli che il pontefice ha chiamato i “nostri fratelli Rohingya”, la minoranza islamica birmana vittima della “pulizia etnica”- definizione usata dall’Onu e dal Dipartimento di Stato americano – compiuta dall’esercito che, dalla fine di agosto, ha costretto seicentomila Rohingya a fuggire dallo Stato del Rakhine per arrivare nei campi profughi del vicino Bangladesh, dove vivono in condizioni disperate.
Intervistato dal New York Times, il cardinale birmano Charles Maung Bo è perfettamente consapevole del dilemma che Francesco deve affrontare nelle prossime ore: parlare della condizione dei Rohingya, creando un incidente diplomatico con i suoi ospiti; o non farne cenno, e mettere a repentaglio così la sua autorità morale, che si impernia sulla denuncia della situazione in cui vivono i popoli perseguitati e oppressi delle periferie del mondo. Il porporato affida così alle colonne del quotidiano americano il suo consiglio al pontefice: “non dire Rohingya”.
“È un termine molto controverso, e all’esercito, al governo e al popolo non piacerebbe che lo esprimesse”, dice Bo. I Rohingya non sono solo mal visti in Myanmar, dove la maggioranza buddhista è schiacciante, il 90%, e nutre atavici pregiudizi nei confronti di quelli che considera “immigrati bengalesi”, nonostante si tratti di una popolazione autoctona. Il governo birmano – nel quale l’esercito convive con i membri del partito del Nobel per la pace Aung San Suu Kyi, in un equilibro complesso e fragile – vive con fastidio le critiche piovute dal mondo a causa delle sue azioni scellerate nei confronti dei Rohingya. A fine agosto, dopo che militanti dell’Arakan Rohingya Salvation Army hanno assaltato alcune postazioni militari, l’esercito del Myanmar ha reagito duramente, incendiando una serie di villaggi abitati da Rohingya, compiendo massacri e stupri, e mettendo in fuga almeno seicentomila persone, riparate nel vicino Bangladesh dove hanno raggiunto chi era scappato dalle vessazioni del passato. Non è la prima volta infatti che i Rohingya sono vittima di persecuzione. Basti pensare che il governo nel 1982 ha tolto loro la cittadinanza, e da allora nega loro i diritti più elementari e li fa oggetto di una sistematica campagna denigratoria, sposata in toto dalla popolazione che li equipara a “terroristi”.
A Francesco, questa realtà certamente non sfuggiva quando ha deciso di compiere il suo viaggio in questo paese in bilico, dove i Rohingya sono solo uno dei tasselli di un mosaico composto da un pastiche di gruppi che, in certi casi, vivono in condizioni non migliori. Un “campo minato”, lo definisce il New York Times, che pone rischi anche ad un uomo navigato come Bergoglio. Il cardinale Bo ha perciò avvertito il dovere di sussurrare all’orecchio del vescovo di Roma, onde evitare che i suoi istinti abbiano la meglio sulla realpolitik. “Ora capisce meglio la situazione”, spiega Bo, che se auspica che il successore di Pietro parli comunque dei Rohingya, spera che lo faccia “in un modo che non irriti nessuno”.
Il pericolo in agguato, secondo Bo, è che una parola in più possa influire sulla delicata situazione dei cristiani in Myanmar. I quali, a detta di Bernardo Cervellera, direttore di AsiaNews, sono “molto, molto preoccupati” dall’eventualità che il Papa sia troppo spontaneo. I cristiani, secondo Cervellera, sanno che Rohingya è una parola “molto politicizzata”. E che evocarla con troppa enfasi rischia non solo di compromettere i rapporti col governo, ma anche di distorcere la realtà. Se infatti “il mondo parla solo dei Rohingya”, sottolinea Cervellera, la situazione in Myanmar è assai più complicata.
Ci sono 700 mila cattolici nel paese, poco più dell’1% della popolazione. Che vivono in condizioni precarie. Come sottolinea il reverendo Thomas J. Reese, capo della Commissione per la Libertà Religiosa Internazionale negli Stati Uniti, il Myanmar è uno dei peggiori paesi al mondo in cui essere cristiani. Sta tutto qui il dilemma di Francesco, secondo Reese. “Se tace sulla persecuzione dei rohingya, perde la sua credibilità morale”; se ne parla, può “mettere in pericolo i cristiani”.
Riflettori puntati dunque sulle giornata di oggi e domani, in cui Francesco incontrerà a Naypyidaw Aung San Suu Kyi; il generale Min Aung Hlaing, comandante delle forze armate del Myanmar e regista delle persecuzioni dei Rohingya; i rappresentanti delle minoranze religiose; e un piccolo gruppo di Rohingya. E chissà se Francesco, in uno slancio dei suoi, ripeterà le parole usate nell’Angelus di agosto, quando citò la “persecuzione della minoranza religiosa dei nostri fratelli Rohingya”, e disse: “Vorrei esprimere loro tutta la mia vicinanza. Tutti noi chiediamo al Signore di salvarli e di ispirare gli uomini e le donne di buona volontà perché li aiutino e perché tutti i loro diritti siano rispettati”.