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Che cosa si sono detti Trump e Putin nella “telefonata fantastica” sulla Siria

Putin, Tajani

È stata, secondo la definizione datane da Donald Trump, una “telefonata fantastica” quella di ieri tra il presidente americano e Vladimir Putin. Una conversazione durata “oltre un’ora” durante la quale, ha dichiarato subito dopo ai reporter il capo della Casa Bianca mentre si avviava verso la sua residenza in Florida per festeggiare il giorno del Ringraziamento, i due leader hanno parlato “molto intensamente su come portare la pace in Siria” e “molto intensamente sulla Corea del Nord e l’Ucraina”.

Secondo la versione del Cremlino, il presidente russo ha illustrato al suo collega americano i risultati del colloquio a sorpresa di lunedì a Sochi tra lui e il rais siriano Bashar al-Assad, entrando nel merito dei piani di Mosca e Damasco sul post-conflitto in Siria. Putin avrebbe inoltre esplicitato la richiesta di un coordinamento con gli Stati Uniti sulle azioni anti-terrorismo e discusso della situazione in Afghanistan.

Nelle ore successive, la Casa Bianca ha rilasciato un comunicato i cui si mettevano in luce i dettagli della conversazione, con particolare riguardo al nodo siriano. “I due presidenti”, precisa il testo, “hanno affermato il loro sostegno alla dichiarazione congiunta degli Stati Uniti e della Federazione Russa rilasciata al Summit APEC dell’11 novembre”. Un riferimento al documento prodotto dagli staff di Trump e Putin a Da Nang in Vietnam, dove i due capi di Stato hanno avuto l’occasione di scambiarsi qualche parola ma senza che avesse luogo un bilaterale, cosa che creò un piccolo giallo in quanto, secondo la versione ufficiale rilasciata dall’entourage di The Donald, non era stato possibile far coincidere le due agende.

Nel proseguio della telefonata, continua il comunicato della Casa Bianca, “entrambi i presidenti hanno enfatizzato l’importanza dell’implementare la risoluzione 2254 del Consiglio di Sicurezza, e appoggiato il processo di Ginevra guidato dalle Nazioni Unite per risolvere pacificamente la guerra civile siriana, terminare la crisi umanitaria, permettere agli sfollati siriani di rientrare a casa, e assicurare la stabilità di una Siria unitaria senza interventi maligni né rifugi sicuri per i terroristi”. Al di là dell’intesa di facciata, è chiaro come su questo punto – il processo di pace in Siria – Trump e Putin siano oltremodo distanti. Non solo perché gli Stati Uniti e la Russia hanno sostenuto parti opposte durante la guerra civile, recentemente risoltosi a favore di Assad. A dividere Casa Bianca e Cremlino c’è anche la gestione del post-conflitto, ossia gli equilibri, tutti da stabilire, tra il regime, le forze di opposizione, che esercitano un potere residuale sul terreno, e i curdi dell’YPG che, inquadrati nelle Forze Democratiche Siriane (Sdf), hanno sconfitto con il sostegno militare degli Stati Uniti i jihadisti dello Stato islamico.

Nella dichiarazione congiunta di Da Nang, Trump e Putin avevano palesato sintonia sul fatto che “non esiste una soluzione militare al conflitto in Siria”, esprimendo l’impegno a lavorare per raggiungere “una definitiva soluzione politica” al conflitto. L’armonia delle parole e le buone intenzioni celano tuttavia la politica del fatto compiuto perseguita da ambo le parti a scapito dell’altra. La Russia, intervenuta a fianco di Assad nel settembre 2015, ha sparigliato le carte di un conflitto le cui sorti fino a quel momento pendevano dalla parte dei ribelli e dello Stato islamico, che il lessico del rais e del capo del Cremlino accomuna sotto la definizione di “terroristi”. Espressione che indica come l’unica via d’uscita dalla guerra civile è, secondo Assad e Putin, una “soluzione militare” che spazzi via i rivali del primo.

Dal canto loro, gli Stati Uniti di Trump hanno ereditato da Barack Obama una gestione fallimentare del conflitto. Obama e il suo primo segretario di Stato, Hillary Clinton, hanno dichiarato ripetutamente di non accettare un esito che contemplasse la preservazione del potere di Assad, salvo ritrovarsi con un presidente siriano rafforzato dall’aviazione russa che ha fatto terra bruciata delle zone controllate dai contendenti. Spicca su tutti il caso di Aleppo, la seconda città siriana dichiarata “liberata” lo scorso dicembre dai russi e da Assad solo dopo essere stata ridotta in macerie.

Conscio di ritrovarsi in un vicolo cieco, Trump ha deciso di puntare tutte le sue carte sulla lotta allo Stato islamico, cancellando il programma di assistenza militare ai ribelli moderati gestito dalla Cia e incrementando il sostegno militare ai curdi, le truppe di terra prescelte da Washington per liberare la zona nordorientale della Siria in mano ai jihadisti. Un approccio che ha prodotto in pochi mesi risultati tangibili, culminati il mese scorso con la conquista di Raqqa, la capitale del califfato.

La Siria, pertanto, si ritrova spaccata oggi in due tronconi. Più della metà del paese è sotto il controllo del regime, puntellato dalle milizie sciite armate e addestrate da Teheran. L’altra metà è invece amministrata dai curdi, con un residuo nei pressi di Idlib nelle mani dei ribelli, più altre piccole aree a macchia di leopardo in cui sono ancora in corso i combattimenti tra le forze lealiste e le opposizioni. A tentare di districare la matassa ci sta pensando Putin, che assieme all’Iran del presidente Hassan Rohani, strenuo sostenitore di Assad, e alla Turchia di Recep Tayyp Erdogan, ha messo in piedi il processo di pace di Astana, formato negoziale concepito per trovare una soluzione al conflitto al di fuori della cornice onusiana.

La telefonata tra Trump e Putin arriva non a caso alla vigilia del nuovo trilaterale tra Putin, Erdogan e Rohani, che avrà luogo oggi a Sochi. La stessa località in cui ieri il presidente russo ha ricevuto Assad, che ha avuto l’occasione di consultarsi con Putin su ciò che resta da fare dopo i successi militari. E se in teoria l’ultima parola sul processo di pace in Siria si dirà a Ginevra, dove il 28 novembre si riaprirà il tavolo tra regime e opposizione sotto egida Onu, è chiaro che l’intesa tra Putin, Erdogan e Rohani mira a condizionare preventivamente l’esito del negoziato che si terrà in Svizzera.

Le manovre congiunte russo-iraniane-turche devono tuttavia tenere conto dei desiderata di Washington, tutt’altro che intenzionata a lasciarsi marginalizzare. È facile immaginare che, nella conversazione con Putin, Trump avrà ricordato al suo collega che l’America non è più amministrata da Barack Obama. E che deve avere voce in capitolo nella ricerca di una “soluzione” al dilemma siriano.



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