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Chi ha fatto vincere il Movimento 5 Stelle a Ostia?

Massimo D'Alema

La candidata del centrodestra sconfitta a Ostia nel ballottaggio con la concorrente grillina, che l’ha distanziata di una ventina di punti, più che dolersi della sconfitta si è compiaciuta dell’aiuto decisivo che, secondo lei, è stato dato alla sua avversaria da quelli di Casa Pound. Che puzzando di destra avrebbero quindi rivalutato il centrodestra, rendendone i panni puliti, e sporcando invece quelli dei grillini.

Ostia, che non a caso è anche un’imprecazione di sorpresa nel linguaggio non solo romano, può ben essere vista come la rappresentazione emblematica del grande pasticcio che è diventata la politica italiana, non a caso rifiutata dalla stragrande maggioranza degli elettori.

Sul litorale romano si è scomodato a votare il 33,6 per cento dell’elettorato. È andato alle urne solo un cittadino su tre. A trattenere gli altri a casa non è stata la paura della mafia o di come altro si può e si deve chiamare la malavita di quelle parti, che non mi pare ad occhio e croce si possa considerare orfana dell’appena scomparso Totò Riina.

L’elettore rimane sempre di più a casa, a Ostia e altrove, per il semplice fatto che riesce a capire sempre meno la politica al livello in cui l’hanno ridotta i partiti che la praticano.

La candidata del centrodestra sconfitta sul litorale romano sa benissimo che ad aiutare davvero i grillini a vincere il ballottaggio municipale è stata la sinistra. Che si è divisa fra la parte, diciamo così, moderata del Pd che si è tirata fuori dalla competizione, preferendo i cassonetti dell’astensionismo al sospetto o all’accusa di voler dare una mano al centrodestra piuttosto che ai grillini, e quella radicale di Pier Luigi Bersani, Massimo D’Alema e compagni – mi scusi dall’aldilà l’amico Marco Pannella – che si è schierata col movimento delle 5 stelle. E lo ha fatto -va detto con onestà- alla luce del sole, con trasparenza, senza nascondersi dietro sotterfugi verbali.

La sinistra filogrillina di Ostia – al quadrato o al cubo, più che radicale – è la stessa che a livello nazionale ha appena vanificato la missione affidata da Matteo Renzi a Piero Fassino. Essa ha annunciato che col Pd non intende fare alcun accordo elettorale. Bersani, D’Alema e soci vogliono semplicemente contarsi nel loro ruolo di oppositori e poi decidere, nelle nuove Camere, che cosa fare e dire, con chi accordarsi e per fare che cosa.

L’antirenzismo, come l’anticraxismo ai tempi di Enrico Berlinguer testimoniati proprio da Piero Fassino nel suo libro autobiografico di 14 anni fa, quando era segretario dei Democratici di sinistra, ha accecato la sinistra sino a renderla funzionale solo alla vittoria altrui: dei grillini ad Ostia o di Silvio Berlusconi fra qualche mese a livello nazionale.

Fassino descrisse impietosamente nel 2003 il Pci berlingueriano degli anni Ottanta attratto dalle “sirene del passato”, contro la modernità della sinistra rappresentata dal socialismo craxiano. Forse egli è tentato di ripetere quelle parole anche per lamentare le condizioni in cui hanno preferito porsi in questo 2017 i suoi ex compagni di partito, che ne hanno accolto la missione di ambasciatore, negoziatore e quant’altro per conto di Renzi con sberleffi, a dir poco. E ciò sino a liquidare il segretario del Pd, a dispetto dell’anagrafe, come l’uomo proprio del passato, secondo il certificato anagrafico emesso dalla tribuna del convegno di giornata dal “coordinatore” degli scissionisti Roberto Speranza. Che più di un cognome, mi sembra un ossimoro, viste le cose che dice e che pensa.

Una sinistra sulle posizioni di Speranza, con gli occhi rivolti all’indietro, che dà la linea alla Cgil in procinto di proclamare lo sciopero contro un governo ormai a fine mandato, o se la lascia dettare, come preferite, non mi pare che possa avere una grande speranza, al minuscolo, di sopravvivere alla confusione che sta creando. O cui sta quanto meno contribuendo.

Tornerà di attualità, su questa strada, anche la sconfitta referendaria della sinistra del 1985 sui tagli antinflazionistici della scala mobile: sconfitta prenotata dall’ultimo scontro di Enrico Berlinguer, prima della morte, con l’allora presidente socialista del Consiglio. Che aveva osato preferire la stabilizzazione o difesa del valore effettivo dei salari ad un loro effimero aumento automatico, come oggi il presidente del Consiglio Paolo Gentiloni chiede di non compromettere con richieste da sfascio dei conti la ripresa in corso. O di non buttare il bambino con l’acqua sporca di alcuni effetti delle riforme attuate nel mercato del lavoro.


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