“Xi campione global” (Corriere della Sera). “Xi Jinping, il leader cinese che parla come Obama” (La Stampa). “Nel gran vuoto lasciato da Trump, Xi Jinping si fa difensore della globalizzazione” (Il Foglio). “Xi Jinping fa il liberal a Davos” (il Manifesto). Lo scorso gennaio il Giornalista Collettivo italiano, in buona compagnia di una parte della stampa anglosassone, aveva accolto con un eccesso di enfasi positiva un semplice discorso pubblico del Presidente della Repubblica popolare cinese al Forum di Davos, scambiando una difesa dell’attuale mercato globale per una difesa dell’economia di mercato tout court o addirittura dei princìpi liberali. Un’enfasi superficiale e fuori luogo, probabilmente dettata dalla necessità – all’indomani dell’elezione del presidente americano Donald Trump – di schierarsi al fianco di un contrafforte simbolico e geopolitico all’America, quale esso fosse. Foss’anche – come Xi Jinping – il Segretario Generale del Partito Comunista del più grande regime autoritario oggi esistente nel mondo.
Tuttavia i fatti hanno la testa dura, come diceva un comunista d’altri tempi, pure lui oggetto di invaghimenti occidentali per lunghi decenni. E alla luce dei fatti è difficile intravvedere una svolta global, obamiana, globalizzatrice o liberal nelle attuali scelte del regime cinese per esempio nel campo dei diritti civili e politici. Scelte peraltro sempre più spesso accettate in maniera prona dai paesi occidentali. L’ultimo esempio di questo appeasement culturale e politico arriva dal mondo editoriale. Springer Nature, gruppo a maggioranza tedesca che vanta di essere il più grande editore di testi accademici del pianeta, ha deciso infatti di bloccare l’accesso a circa 1.000 dei suoi articoli scientifici, impedendone la lettura a chiunque li volesse consultare dal territorio cinese. Per esempio, se oggi siete residenti a Pechino e digitate la parola “Tibet” nell’archivio del prestigioso Journal of Chinese Political Science, non troverete alcun riferimento; ma se la stessa ricerca la effettuate da un computer italiano, troverete 66 articoli in materia. Potete riprovare con l’espressione “Rivoluzione culturale”: dalla Cina, non troverete nulla; cliccando invece dal di fuori della Grande Muraglia, troverete 110 articoli. Il gruppo editoriale Springer Nature, curiosamente, non ammette di aver avallato la censura voluta da Pechino, ma soltanto di essersi adeguato alle “leggi della distribuzione locale”. Jonathan Sullivan, sinologo dell’Università di Nottingham, ha detto invece al Financial Times che questo caso illustra bene “il modo in cui percepiamo la nostra relazione con la Cina e quanto teniamo ai princìpi rispetto ai benefici che discendono dal fatto di accontentare le autorità politiche di Pechino”.
I tedeschi di Springer, che tra l’altro pubblicano riviste note al grande pubblico come Nature, non sono gli unici ad aver adottato un atteggiamento tanto remissivo nei confronti dei censori della potenza cinese. Due mesi fa aveva fatto discutere una scelta simile compiuta da Cambridge University Press, scelta poi cancellata in seguito alle rimostranze della comunità accademica e della società inglesi e non solo. Adesso si vedrà se assisteremo a una reazione simile in Germania e nell’Europa continentale. Difficile sperarci, considerato il provincialismo in cui sono inciampati nelle scorse settimane commentatori e analisti dei nostri media, i quali hanno descritto l’attuale leadership cinese come l’unica alternativa da sostenere sullo scacchiere internazionale in chiave anti Trump o addirittura come la classe dirigente più liberal-liberale-globalizzatrice che oggi passi il convento di Pechino. Con buona pace di liberi pensatori, oppositori e dissidenti cinesi ai quali adesso vietiamo anche qualche buona lettura.