La decisione del presidente degli Stati Uniti Donald Trump delle scorse settimane di voler riconoscere Gerusalemme come capitale d’Israele, spostandovi l’ambasciata Usa in Israele da Tel Aviv, ha provocato, oltre agli scontri dei primi giorni, numerose reazioni da parte di molteplici attori internazionali, che non mostrano alcuna intenzione di voler lasciare la presa. Tra queste, l’ultima è quella avuta dall’Assemblea generale dell’Onu attraverso il voto di una larga maggioranza di 128 Paesi, tra cui l’Italia, contro 9 favorevoli e 35 astenuti. Mandando così su tutte le furie il premier israeliano Benjamin Netanyahu che, nonostante avesse già provato nelle scorse settimane a incontrare i ministri degli esteri europei, ha definito le Nazioni Unite “la casa delle bugie”, mentre ha invece ringraziato il presidente statunitense assieme all’ambasciatrice Usa all’Onu, Nikki Haley, intervenuta duramente a favore di Israele nel corso della seduta.
LA BOCCIATURA DELL’ONU SU TRUMP E LA LINEA DEL VATICANO
“Quasi tutto il mondo dice no a Trump”, ha scritto il quotidiano della Cei Avvenire, che in mattinata aveva pubblicato anche una lettera del ministro degli Esteri Angelino Alfano in cui spiega che “l’Italia è convinta che il negoziato tra le parti, e certamente non la violenza, sia l’unica via per decidere lo status di Gerusalemme”. Oppure quella della Santa Sede, che al contrario fin dai primi giorni, tramite le parole di monsignor Silvano Maria Tomasi, a lungo rappresentante vaticano presso l’Onu, ha dichiarato che “serve una linea politica, di convergenza, di sforzi per la pace”, dove cioè esistano “due Stati indipendenti, rispettosi dei diritti di ciascuno”, e in cui Gerusalemme possa “rimanere accessibile alle tre grandi religioni abramitiche: ai cristiani, ai musulmani e agli ebrei”. Posizione messa poi, nei giorni seguenti, nero su bianco in un comunicato. Fino ad arrivare, per ultima, all’intervento durante l’Assemblea della Nazioni Unite in cui si è espresso “apprezzamento per l’impegno a scongiurare nuove ondate di violenza e a promuovere il dialogo”.
LE PAROLE DEL PAPA E GLI INCONTRI AVUTI DOPO LA DECISIONE DI TRUMP
E di Papa Francesco in persona che, dicendosi “profondamente preoccupato per la situazione”, ha rivolto un “accorato appello” per Gerusalemme “affinché sia impegno di tutti rispettare lo status quo della città, in conformità con le pertinenti Risoluzioni delle Nazioni Unite”. Indicandola come “città unica, sacra per gli ebrei, i cristiani e i musulmani, che in essa venerano i Luoghi Santi delle rispettive religioni, ed ha una vocazione speciale alla pace”. E che ha rivelato quindi di pregare per “preservare questa identità”, per evitare “di aggiungere nuovi elementi di tensione in un panorama mondiale già convulso e segnato da tanti e crudeli conflitti”. Sollecitazione, quella di Bergoglio, avvenuta in seguito al colloquio telefonico avuto pochi istanti dopo la notizia della decisione di Trump, il 5 dicembre, con il presidente palestinese Abu Mazen. Soltanto un paio di giorni più avanti è stato invece il presidente turco Recep Tayyp Erdogan che ha contattato in maniera diretta il Santo Padre, mettendo in questo modo da parte tutto lo strascico di una tensione diplomatica che, passata anche attraverso il fallito golpe turco del luglio scorso, stava proseguendo da quando, nel 2015, il pontefice ritrasse il massacro armeno di inizio secolo con il termine malaccetto dai turchi di “genocidio”.
IL COLLOQUIO TRA BERGOGLIO E IL RE DI GIORDANIA
Nei giorni scorsi è stata invece la volta del Re di Giordania Abdallah II, nel fare visita, in Vaticano, al pontefice. In un incontro durato una ventina di minuti in cui “si è rinnovato l’impegno per favorire i negoziati tra le parti interessate, come pure per promuovere il dialogo interreligioso”, come ha poi fatto sapere la Sala stampa vaticana. Mentre successivamente lo stesso Re giordano, che dal ’79 detiene anche il titolo di “Guardiano e custode dei luoghi santi cristiani e musulmani a Gerusalemme”, ha riaffermato in una nota il suo appello a favore dello “status quo storico di Gerusalemme”, per preservarne “l’identità araba, musulmana a cristiana” e “salvaguardare i diritti” di tutte le parti. Confermando così una tendenza, scrive Gianni Valente su La Stampa, “già avvertita nelle prime fasi della nuova crisi su Gerusalemme”: ovvero che “i leader politici islamici guardano al Papa e alla Santa Sede, cercandovi una sponda e un alleato oggettivo e super-partes”.
COSA MOSTRA IL FATTO CHE I MUSULMANI CERCANO LA SPONDA DI FRANCESCO?
Il fatto che capi politici musulmani cerchino la sponda del Papa su Gerusalemme, ha infatti approfondito il vaticanista, sono sufficienti per respingere la visione di uno scontro, quello israelo-palestinese, basato unicamente sulla contrapposizione tra la società islamica e lo Stato di Israele sorretto dagli Stati Uniti. Questo perché la mossa di Trump ha involontariamente ricompattato tutte le comunità cristiane del Medio-Oriente su una linea di condanna verso la sua decisione, comprese le stesse comunità evangeliche su cui il presidente americano ha puntato e punta fin da prima del suo insediamento alla Casa Bianca. Posizione cioè pari a quanto affermato in uno “storico” incontro interreligioso a Bkerke, in Libano, in cui, uniti nel “no“, si è bollata la scelta di Trump come “malaugurata” e mancante della “saggezza necessaria agli artefici della vera pace”. O a quanto esplicitamente proposto in un appello dal leader palestinese Abu Mazen, a una trentina di capi e rappresentanti delle Chiese e delle comunità cristiane di Terra Santa ricevuti a Ramallah. E come infine testimoniano le cronache e le dichiarazioni che si sono susseguite in queste settimane, arrivando così fino agli ultimi giorni.
L’INTERVENTO DEL SEGRETARIO PAROLIN E DI MONSIGNOR PIZZABALLA
“Gerusalemme è una città unica e sacra per ebrei, cristiani e musulmani. Dovrebbe avere uno statuto speciale che ne faccia una ‘città aperta’, e che offra assicurazioni di libertà religiosa per i membri delle tre religioni”, ha infatti spiegato nelle ore precedenti il segretario di Stato della Santa Sede Pietro Parolin al Corriere della Sera, intervistato dal vaticanista Gian Guido Vecchi, riproponendo la posizione vaticana a favore di uno “statuto di garanzia internazionale” per Gerusalemme, che permetta anche “libero accesso” ai turisti nei Luoghi Santi, già ribadita anche lo scorso agosto in un’intervista rilasciata a Stefania Falasca di Avvenire. “La politica è la grande assente di questo momento”, ha invece tuonato monsignor Pierbattista Pizzaballa, amministratore apostolico di Gerusalemme dei Latini e fino al 2016 custode di Terra Santa, in una conferenza stampa di Natale. “Noi riteniamo che ogni soluzione unilaterale non possa essere considerata una soluzione. Decisioni unilaterali non porteranno la pace, ma anzi la allontaneranno”.
LE PAROLE DEL CUSTODE DI TERRA SANTA PATTON E DEL LUTERANO RAHEB
“Il Natale chiama alla pace e alla salvezza”, gli ha infine fatto eco l’attuale custode di Terra Santa padre Francesco Patton, intervistato dall’agenzia Sir, prima che diffondesse il suo messaggio di Natale a Gerusalemme. Che significa, in termini più pratici, darsi da fare per la pace e per il dialogo. “La salvezza si colloca su un piano trascendente le cui ricadute, tuttavia, sono molto concrete”, ha spiegato Patton. “Ciò che dobbiamo imparare è che tutti i processi di pace sono fragili e chiedono il coinvolgimento di una comunità internazionale che sia all’altezza del proprio compito”, ha poi aggiunto. “Chi ha la possibilità di essere determinante nei processi di pace lo sia davvero attraverso la strada del negoziato”. Duro invece il commento del pastore luterano e presidente del collegio universitario Dar al-Kalima a Beltlemme Mitri Raheb, riportato sempre da La Stampa: “I cristiani locali vengono sacrificati sull’altare delle politiche imperialiste”, ha detto il religioso, aggiungendo che “il Dio” di chi le sposa “non sembra avere niente in comune” con “il nostro Dio”, in quanto quello che “si adora” è “un guerriero, non un crocifisso”.