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Papa Francesco, la Curia e la riforma della Chiesa secondo lo storico Alberto Melloni

Giovedì Papa Francesco ha tenuto il suo tradizionale discorso alla Curia Romana, e ai dipendenti della Santa Sede, in occasione della presentazione dei suoi auguri natalizi. Le sue parole sono state a tratti dure e inequivocabili, come Bergoglio ha ormai abituato in molti dall’inizio del suo pontificato. Ha parlato di “traditori” e “approfittatori”, di “persone selezionate” che invece “si lasciano corrompere dall’ambizione o dalla vanagloria”, ma anche di una “stragrande maggioranza che lavora con impegno, fedeltà e tanta santità” (qui e qui i due discorsi integrali). Formiche.net ne ha parlato con il professore Alberto Melloni, storico del cristianesimo e in particolare del Concilio Vaticano II, direttore della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna e editorialista di Repubblica.

Professore, i giornali hanno parlato di un appuntamento tanto “tradizionale” quanto “temuto”, e il Papa effettivamente in alcuni passaggi ha usato parole abbastanza dure. Chi sono stati secondo lei i principali destinatari?

Il Papa ha deciso di usare, non da quest’anno, l’occasione dell’incontro e degli auguri con la Curia per fare un discorso che riguarda lo status di un organismo che rientrava nell’agenda sulla quale lui è stato eletto nel Conclave del 2013. L’esigenza della Curia è stata molto sentita in quel momento, anche con una certa ingenuità, perché si puntava molto il dito contro gli italiani, che secondo molti cardinali avevano creato incuria. Le cose importanti ieri dette mi sembra siano state due: da un lato ha spiegato perché in questi quasi 5 anni di pontificato in realtà egli non ha fatto “avvicendamenti di imperio”, ma nomine che erano dovute, come il segretario di Stato e così via. E poi come si è visto con il cardinale Müller, ha aspettato le scadenze naturali dei mandati dei cardinali per procederne all’avvicendamento, spiegando che questa sua attesa non voleva dire ignorare i problemi che c’erano o ignorare gli atteggiamenti di alcune persone di Curia con le quali si è misurato.

L’Osservatore Romano ha infatti parlato di un discorso di continuità, altri giornali vi hanno visto un elemento di rottura. Monsignor Marcello Semeraro ha replicato dicendo che non ha usato “un linguaggio d’ira ma di paternità”. Massimo Franco sul Corriere della Sera ha invece addirittura parlato di un Bergoglio “più romano” e di una “rivoluzione archiviata”.

Continuità e rottura sono due concetti che non c’entrano nulla, basta pensare che 3 anni fa ha fatto l’elenco dei 19 vizi della Curia. Sarebbe quindi una banalizzazione: quello che dicono i giornali sui discorsi del Papa non ha nessun rilievo. Sono tentativi di incasellare lo stile di Papa Francesco in categorie interpretative pregresse. Se qualcuno si aspettava che la riforma della Curia volesse dire un Papa bastonatore, non è stato così: ha fatto pochissimi interventi e quello che ha spiegato è ciò che lui si aspetta dagli uomini che sono in Curia. Che cioè non si fa illusioni sull’idea che toccando o cambiando regolamenti, procedure o persone, si ottengono grandi risultati. Chiede una conversione molto più profonda e interiore, non semplicemente una questione di spoils system.

L’immagine della sfinge e dello spazzolino è però abbastanza diretta. Alcuni commentatori dicono che la riforma della Curia, se paragonata a cambiamenti legati a fattori come il linguaggio, lo stile, le priorità pastorali del Papa, stia rallentando.

Il Papa semplicemente non nutre eccessive illusioni sul fatto che con dei decreti si cambino le persone. La Curia è stata normata nel 1588, riformata piccolissimamente nel 1622, poi nel 1908, nel 1945, nel’59, ’68, ’83, ’88, con una serie di atti di diversa natura, e non è stato questo infittirsi di atti normativi a cambiare i problemi. Anzi, qualche volta sembra averli addirittura o lasciati intatti o aumentati. L’immagine perciò è molto efficace, e dice che non è con un decreto che si fa la riforma della Curia: il problema è quello di rimettere la Curia in connessione col ministero apostolico ed evangelico e con il collegio episcopale.

Come l’hanno presa i cardinali presenti?

Penso che tutti, cardinali e non, si siano abbastanza abituati al fatto che nel suo parlare il Papa non usa artifizi retorici o giri di parole. C’è in lui un’urgenza apostolica ed evangelica che si esprime, e tanto più con le persone che gli sono prossime e vicine questa urgenza non disdegna il registro del richiamo e addirittura del rimprovero. L’ha fatto con tutti.

Parlando con i lavoratori vaticani ha usato un’immagine che mi ha colpito, quella della “fauna clericale”, che ricorda un po’ gli anni settanta…. Perché? Che voleva dire?

Beh il Papa si rende conto, e lo dice da quando era a Buenos Aires, che il vizio del cardinalismo è molto grave e importante, che può causare gravi storture e problemi. Il Papa ama usare metafore anche molto colorite, e questa è una di quelle. Ma se uno volesse immaginare che nella Chiesa Cattolica, e soprattutto nel suo centro romano oggi, che non vi sia il problema di clericalismo, bisognerebbe dirgli o che è cieco o che è sciocco.

I “traditori di fiducia e gli approfittatori di maternità, che accusano invece di recitare il mea culpa“. A chi si riferiva?

Quando Francesco vuole parlare di qualcuno lo dice, non c’è il problema di decifrarlo. Questo non è un Papa indecifrabile, per cui: ha fatto un riferimento molto chiaro al cardinale Müller e al suo atteggiamento di vittimismo, che c’era. Ha fatto poi un riferimento molto chiaro agli uomini delle finanze che hanno violato i Papi di riservatezza, lamentandosi poi di quello che è accaduto, immaginando l’espressione del Papa ignara, che c’è nell’intervista del dottor Milone. È molto trasparente quello che voleva dire: evidentemente il Papa è stato molto infastidito e seccato per questi atteggiamenti, di cui si rende ben conto e che valuta come elementi estremamente nocivi per quella che è la reputazione del cattolicesimo romano e l’andamento del papato.

Sarebbe forse ipocrita raccontare che non ci sia stato niente.

Appunto, non è Bergoglio l’uomo che si meraviglia o si stupisce quando c’è da fare il calco dei peccati e delle storture della Chiesa, e delle strutture di potere all’interno della Chiesa. Non è mai stato un suo problema quello di cercare di nascondere o di edulcorare la realtà delle cose, che è lì, sotto gli occhi di tutti. Da un lato c’è una cosa molto nota e normale: che raramente ci sono grandi vizi pubblici che non attecchiscano anche nel clero, ed è così anche nella Chiesa e nella Curia di oggi. E la cosa che lui non vuole fare è di usare infingimenti che servono a difendere una specie di onore ecclesiastico, che in realtà non è l’onore di nessuno.

Una notizia di ieri è la conferma di Monsignor Guido Marini come cerimoniere. Nei giorni scorsi alcune testate citavano questo specifico passaggio come di un punto delicato all’interno della Curia, legato anche a un litigio interno che avrebbe provocato reazioni e malcontenti. Secondo lei tutto questo è verosimile?

La figura del cerimoniere è una figura che ha lo spazio che il Papa gli dà. È come il microfonista di una trasmissione televisiva: se è bravo non lo si vede, se sta molto in scena non è un bravo microfonista. Mi sembra che monsignor Marini con Papa Francesco si sia comportato molto bene. Il Papa ha un suo stile celebrativo molto esplicito, chiaro e trasparente, che tutti vedono e giudicano, e mi sembra che Marini lo abbia servito con la dovuta docilità.

Nel discorso c’è stato un passaggio del Papa sulla diplomazia vaticana e sulla Terza sezione della segreteria di Stato. Che cosa ha portato all’istituzione di questa nuova struttura?

La nascita della Terza sezione ha uno scopo che vedremo quanto funzionerà: ovvero quello di staccare i momenti in cui viene decisa la linea politico-diplomatica della Santa Sede da quello in cui si decidono le carriere di quelli che devono interpretarla. Per cui è una forma di neutralizzazione dei meccanismi di carriera dei nunzi. Fino ad oggi era abbastanza evidente che ogni segretario di Stato che arrivava, e ogni sostituito, poi promuoveva una certa filiera di nunzi che corrispondevano alla sua linea. Staccare le due funzioni, la gestione delle carriere dalla concezione dell’azione politica della Santa Sede, mi sembra che sia un passo per cercare di rendere la diplomazia pontificia più coerente e omogenea. La diplomazia pontificia è come tutte le diplomazie: associa persone di valore e intelligenza politica straordinaria a piccoli funzionari e burocrati. Il fatto di dividere i meccanismi di carriera dalla linea politica mi sembra che sia quindi un buon sistema per garantire questo. È uno strumento abbastanza comune alle grandi macchine diplomatiche. Tutte le grandi diplomazie europee hanno teso a distinguere, chi in un modo chi nell’altro, queste due funzioni, per garantirsi che l’efficacia di una rappresentanza diplomatica non dipenda dalla vicinanza personale con il titolare della linea politica ma sia l’interpretazione di una linea generale che dal governo viene.

Riguardo alla scomparsa del cardinale di Boston Bernard Francis Law, l’uomo dell’inchiesta Spotlight, quale significato simbolico questa può avere, nell’ambito della pulizia riguardo alla pedofilia nel Clero? Si può pensare al passaggio a una nuova fase, o molti problemi restano ancora inevasi?

Il cardinale Law è stato l’emblema della dimensione più importante di quella che viene chiamata la crisi della pedofilia nel Clero. Perché bisogna sempre ricordarsi che la pedofilia è un crimine maschile: non è clericale, celibatario, eterosessuale o omosessuale. È una forma estrema di violenza sulle donne e i loro figli, perpetrata da grandissime quantità di maschi, dentro tutti gli strati sociali e tutte le fasce della società. Il fatto che questo crimine abbia presa dentro il Clero cattolico è sconcertante, ma come dicevo prima raramente ci sono vizi o delitti o altre cose che non appartengano anche al mondo ecclesiastico. Quello che ha trasformato questi delitti in una tragedia strutturale è stata l’incapacità dei vescovi davanti a preti che confessavano i loro delitti, e a vittime che denunciavano le violenze subite. Law è stato l’esemplificazione più drammatica di tutto questo, in una diocesi in cui questo tipo di delitto aveva avuto protagonisti terribilmente famosi per le loro malefatte, in cui anziché accompagnarli in un percorso di giustizia e farsi carico delle sua vittime ci si è fatto carico solo dei suoi figli perpetratori, coprendoli. Nel 2002 era stato portato a Roma, dopo le dimissioni da Boston per aver perso completamente la capacità di governare la diocesi, per essere immune dalla giurisdizione americana. Quando celebrò una delle messe per il lutto di Giovanni Paolo II ci furono forti polemiche, per via del fatto che forse il cappello cardinalizio gli poteva essere pure tolto. La sua morte lo consegna alla storia col peso gigantesco di quanto grava su di lui: avere diviso la propria Chiesa tra figli e figliastri, trattando da figliastri le vittime e da figli i perpetratori, è una cosa di una gravità di cui si stenta a rendersi conto.

In conclusione: a che punto è quindi la riforma, di Papa Francesco, della Curia Romana?

Il problema non è la riforma della Curia ma della Chiesa. Se la Chiesa si riforma anche la Curia si risana, altrimenti uno può anche selezionare con il microscopio le persone da mettere in Curia ma alla fine sarà sempre il riflesso delle concezioni e delle pratiche di servizio apostolico e di servizio al potere che valgono nel resto della Chiesa.



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