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Come cambiano gli equilibri energetici dopo le ultime crisi in Medio Oriente

Giorno dopo giorno, tra iraniani e sauditi sale la tensione. Lo scorso novembre è stato il presidente della repubblica islamica Hassan Rohani, ad attaccare l’Arabia Saudita: “Non siete niente. Potenze più grandi di voi si sono rotte i denti contro di noi”, ha dichiarato invitando l’avversario a tenere conto della “potenza iraniana”. Nel frattempo, l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti hanno recentemente formalizzato la formazione di una nuova alleanza politico-militare (ma anche economica, commerciale e culturale). L’annuncio è arrivato durante la trentottesima riunione del Consiglio di Cooperazione del Golfo, l’organismo internazionale creato nel 1981 per accomunare politicamente ed economicamente gli Stati arabi del golfo Persico (Bahrein, Qatar, Kuwait, Oman, oltre che sauditi ed emiratini).

Sotto quest’ottica appare evidente come la decisione di creare una nuova alleanza, a cui potrebbe unirsi presto anche il Bahrein, sia una mossa anti-Iran e anti-Qatar. Non si intravedono, al momento, soluzioni a breve termine alla crisi innescata da sauditi ed emiratini a inizio giugno, quando presero la decisione unilaterale di isolare Doha (via terra, via mare e via cielo), accusandolo formalmente di sostenere il terrorismo nei paesi confinanti e nello Yemen e punendolo per aver costruito relazioni stabili con Teheran.

Le recenti tensioni in Medio Oriente potrebbero avere importanti conseguenze per gli equilibri energetici dell’area, oltre che per la sicurezza energetica dei paesi asiatici, Cina ed India in primis. Per comprendere al meglio gli scenari del prossimo futuro, appare necessario considerare due importanti fattori. Infatti, se da una parte diversi paesi del mondo sunnita desiderano incrementare le forniture di greggio in Asia Orientale, recenti analisi sembrano confermare che la maggior parte delle nazioni asiatiche sperano di ridurre la loro dipendenza energetica dal Medio Oriente, in particolare dall’Arabia Saudita. Al momento due terzi del petrolio saudita è esportato in Asia. La quota è addirittura più alta per gli Emirati Arabi Uniti (96%) e per l’Iran (86%).

Diversi fattori lasciano però pensare che nei prossimi decenni, da un lato avremo un’effettiva crescita della domanda di energia da parte dei paesi dell’Asia Orientale, dall’altro il consumo interno di greggio da parte dei paesi del Medio Oriente aumenterà sensibilmente (grazie soprattutto alla crescita industriale e della popolazione, oltre poi ad una maggiore urbanizzazione). Quindi, nel corso dei prossimi anni, i giganti petroliferi del Medio Oriente non saranno più in grado di supportare la domanda energetica proveniente dai paesi dell’Asia Orientale. Un deficit che dovrà quindi essere risolto diversificando l’approvvigionamento.

Ad esempio l’India ha già fatto sapere di voler ridurre la sua dipendenza dal greggio dei produttori dell’OPEC. La Cina, nel corso degli anni, è riuscita a diversificare con successo le sue fonti . Se la quota di greggio importata dall’Arabia Saudita è in calo, quella proveniente da Angola, Russia, Iran e Brasile cresce.

Pechino continua ad investire sensibilmente nel settore energetico, al fine di ridurre ulteriormente  la dipendenza dai sauditi e dai suoi alleati. Russia e Iran sono gli unici due esportatori di energia,  al di fuori della sfera di influenza degli Stati Uniti, che hanno riserve di petrolio e gas sufficienti a soddisfare potenzialmente tutto il fabbisogno della Cina.  Agli inizi di settembre  la Cefc (China Energy Corporation), un conglomerato privato in rapida ascesa nel mondo cinese dell’Oil & gas, ha acquistato una quota del 14,16% di Rosneft, importante compagnia petrolifera di proprietà del governo russo.

L’Iran offre una rotta privilegiata. Pechino ha continuato in questi anni ad acquistare il greggio iraniano, fregandosene della sanzioni imposte dall’Occidente. La rotta di riferimento è quella che passa attraverso il Pakistan. L’asse Cina-Russia-Iran-Pakistan sarà quindi con ogni probabilità il nuovo e importante asse di approvvigionamento cinese. Una rotta terrestre,  decisamente più sicura di quella marittima, dominata ancora dagli Stati Uniti.

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