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Cosa cambia per noi dopo la riforma fiscale negli Usa?

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Esattamente venti anni fa, in una raccolta di saggi sulla “disoccupazione di fine secolo”, pubblicata dall’editore Bollati Boringhieri, un economista italiano non certo contiguo al centrodestra, e allora vicedirettore generale della Banca d’Italia, Pierluigi Ciocca, aveva, con preveggenza, messo il dito sull’aspetto chiave dell’economia mondiale del ventunesimo secolo: la Vecchia Europa (con una pressione fiscale sul 45%) del Pil è costretta a competere con Usa e Canada (la cui pressione fiscale è sul 30% del Pil) e con Paesi asiatici (la cui pressione fiscale non sfiora il 15% del Pil). E sulla base di queste considerazioni che occorre valutare gli impatti per l’Europa e per l’Italia della riforma tributaria appena varata dal Congresso degli Stati Uniti e che entrerà in vigore il primo gennaio. Della riforma si conoscono solo gli aspetti salienti. Quindi, questa non è che una prima analisi.

È essenziale riportarne i punti essenziali. In primo luogo, le imposte sugli utili d’impresa scenderanno dal 35 % al 21%; a titolo di raffronto in Italia un’analisi del centro studi ImpresaLavoro rivela che il carico tributario e contributivo si pone mediamente sul 64% dei proventi. Viene eliminata la alternative minimum tax aziendale che eroderebbe crediti per ricerca e sviluppo. Meno drastica invece la svolta sulle imposte individuali: le aliquote restano sette, leggermente abbassate a partire dalla massima, che scende dal 39,6 al 37 per cento. L’imposizione tributaria che in passato ha cercato di essere “neutrale” nel trattare i redditi da lavoro e quelli da capitale, ha anche trattato gli earned income con aliquote leggermente inferiori a quelle dei redditi da capitale, diventa, da progressiva regressiva: l’idea di fondo è che con lo sviluppo e la crescita delle imprese, aumenterà la domanda di lavoro e dunque cresceranno anche i salari, specialmente delle categorie ai livelli più bassi di reddito.

Il testo approvato prescrive anche imposte una tantum sul rimpatrio di profitti accumulati all’estero da società Usa – in tutto sono circa tremila miliardi – pari al 15,5% per il contante (o attività liquidi) e all’8% per attività non liquide (dal 14,5% e 7,5% ipotizzati in un primo momento). Ciò attirerà il rientro da capitali americani dall’estero, al tempo stesso in cui il più favorevole trattamento tributario sulle aziende favorirà il trasferimento di imprese (e tecnologie) dall’estero negli Stati Uniti.

È doveroso ricordare che non si placano le ondate di critiche di economisti americani nei confronti di una manovra considerata da molti “ingiusta” (perché favorisce coloro che possono facilmente trasformare i loro redditi in proventi da impresa piuttosto che da lavoro, generalmente categorie ad alto reddito e con forti dotazioni in capitale).

Numerosi economisti americani la considerano “insostenibile” dal punto di vista della finanza pubblica. Il Nobel per l’economia Joseph Stiglitz ha sottolineato i rischi di aumento del deficit, e del debito pubblico in seguito all’approvazione della riforma tributaria. Un parere analogo è arrivato da Michael Bloomberg, che ha criticato la riforma, a suo avviso “una cantonata economicamente indifendibile” di cui il presidente dovrà rispondere per gli effetti che creerà.

Si potrebbero citare altri giudizi negativi a iosa. In base al sunto dei testi pubblicati online, a mio avviso, la Casa Bianca e il Congresso non sono riusciti a cogliere quello che pareva essere l’obiettivo centrale: semplificare il diritto tributario americano (oggi diversi volumi per il peso complessivo tra i 15 e i 20 chili, a seconda della confezione). Trump aveva promesso che lo avrebbe ridotto a “una cartolina”. È invece rimasto ugualmente complesso e compendioso. Sono state eliminate alcune tax expenditures (sgravi a favore di questi o quelli) ma proprio all’ultimo momento, un emendamento bipartisan ne ha aggiunta una, molto ampia, a favore degli immobiliaristi (come Trump).

Come detto in apertura di questa nota, un’analisi approfondita potrà essere fatta unicamente dopo la pubblicazione dei testi e non si tratterà di uno studio facile. Già da ora, però, è chiaro che si sta realizzando, e anzi, aggravando, quanto Ciocca ammoniva nel 1997: la riforma Usa pone una sfida enorme all’Europa e all’Italia perché, da un lato, è un invito alla nostre imprese a trasferirsi al di là dell’Atlantico e da un altro pone quelle che restano in una posizione meno competitiva nei confronti degli Usa.

 

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