Convocando a Istanbul, nella sua qualità di presidente di turno, un summit d’emergenza dell’Organizzazione della Conferenza islamica (Oci), che aggrega i 57 paesi islamici del mondo, Recep Tayyip Erdogan ha cercato di unire i vertici dei quasi 2 miliardi di musulmani presenti nel pianeta nella più solenne e dura condanna della decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme quale capitale di Israele. Un tentativo però fallito. Solo 22 paesi erano rappresentati a livello di capi di stato o di governo, ed era vistosa l’assenza dei reali sauditi, del presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e dei capi degli alleati Emirati e Bahrein, che hanno inviato ad Istanbul solo dei ministri.
Pur “rigettando e condannando” la “pericolosa dichiarazione” del presidente americano ed esortando “tutti i paesi” del mondo a “riconoscere lo Stato di Palestina e Gerusalemme est come la sua capitale occupata”, il comunicato finale del summit appare quanto mai debole. E riflette le divisioni in seno alla umma islamica, spaccata lungo l’asse sunniti-sciiti e, soprattutto, restia a prendere esplicitamente le distanze dagli Stati Uniti, che per alcuni rimangono un alleato imprescindibile.
A Istanbul, a sostenere il grido di dolore del presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas sono arrivati il presidente iraniano Hassan Rouhani, il re di Giordania Abdullah II, gli emiri del Qatar e del Kuwait, il presidente libanese Michel Aoun, quello dell’Azerbaijan Ilham Aliyev e quello del Bangladesh Abdoul Hamid. Ma non c’era il campione dell’Islam, il re saudita Salman, né il suo erede Mohammed bin Salman, vero regista dei giochi di potere dell’Arabia Saudita e artefice di una politica estera che si impernia più che mai sull’intesa con Washington.
A dirigere le danze ci ha pensato l’ospite, Erdogan, smanioso di apparire come l’architrave del consenso islamico intorno ad un tema tradizionalmente centrale come la questione palestinese e lo status di Gerusalemme. Uno status messo a rischio da una decisione, quella presa la settimana scorsa da Trump, che Erdogan giudica “non valida nel nostro intendimento, nella nostra mentalità e nella nostra coscienza”. Ha usato parole forti, il rais: “Con questa decisione”, ha tuonato, “Israele, che è responsabile di occupazione, blocco, insediamenti illegali, demolizioni di case, espulsioni, esproprio di terre, violenza sproporzionata e assassini, è stata ricompensata per tutte le sue azioni terroristiche”. Erdogan ha salutato il summit di ieri come emblema di una “nuova alleanza” che vedrà i paesi islamici uniti nella determinazione di “proteggere e preservare lo storico status e la santità di Gerusalemme” da tutte le aggressioni. Specialmente quelle degli Stati Uniti, che “non possono più agire imparzialmente” come mediatori nella disputa tra palestinesi e israeliani. “America, puoi pensare di essere forte, puoi avere armi, armi nucleari, puoi avere molti aerei. Ma niente di tutto ciò significa che sei forte. Sei forte solo se sei nel giusto”.
Musica nelle orecchie dell’altro protagonista dell’assise, Abbas. Che ha denunciato il “grande crimine” degli americani. “Gerusalemme è e sarà sempre la capitale dello stato di Palestina”, ha detto, stigmatizzando la dichiarazione di Trump. “D’ora in poi”, ha sottolineato, “non accetteremo più il ruolo degli Stati Uniti nel processo di pace perché hanno dimostrato la loro completa tendenziosità in favore di Israele”. Abbas ha quindi esortato l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a concedere la piena membership alla Palestina, e fatto appello al Consiglio di Sicurezza affinché annulli la decisione del presidente Usa.
In platea, a solidarizzare pienamente con il presidente palestinese, c’era il collega iraniano Rouhani. Che ha reso note le sue posizioni in un tweet lanciato alle dieci del mattino: “La recente decisione dell’amministrazione Usa ha chiarito che gli Usa stanno solo cercando di massimizzare gli interessi dei sionisti e che non hanno alcun rispetto dei diritti legittimi dei palestinesi. Gli Usa non sono mai stati dei mediatori onesti e non lo saranno mai”.
È piena, dunque, la consonanza tra Abbas e Rouhani. Ma la solidarietà islamica verso la causa palestinese non va oltre, cementandosi tutt’al più nella condanna rituale espressa nel comunicato finale. Che non impensierisce il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu. Il quale, commentando le notizie da Istanbul, ha sottolineato che “tutte queste dichiarazioni non ci impressionano”. “Alla fine”, si dice convinto Bibi, “la verità vincerà a e altri riconosceranno – molti paesi riconosceranno – Gerusalemme come capitale di Israele e sposteranno anche là la loro ambasciata”. “È meglio per i palestinesi”, ha aggiunto, “riconoscere la realtà e lavorare per la pace e non per la radicalizzazione, e che riconoscano un altro fatto su Gerusalemme non solo che è la capitale di Israele, ma anche che proteggeremo a Gerusalemme la libertà di culto per tutte le religioni”.