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Così Paolo Mieli e il prof Parsi fanno luce in Italia sulla guerra ibrida della Russia

daghestan, Putin

Qualcosa sta cambiando nel modo in cui intendiamo la Russia e la sua, ormai evidente, penetrazione negli affari europei e statunitensi. Due tra i più autorevoli quotidiani italiani, il Corriere della Sera e l’Avvenire, hanno dedicato oggi i rispetti editoriali al nodo russo, firmati da Paolo Mieli, uno dei giornalisti più influenti in Italia, e Vittorio E. Parsi, professore della Cattolica non meno rilevante.

Negli ultimi mesi, anche l’Italia è stata infatti investita da quella che Mieli definisce “una sorta di liberalizzazione delle patenti di antiamericanesimo”, conseguenza non voluta dell’elezione di Donald Trump. La vittoria del tycoon è stata sufficiente per concedere automaticamente “una licenza generalizzata di vituperio nei confronti di ogni singolo atto della politica americana”, con “implicito ossequio a quella russa”, scrive Mieli. Probabilmente, tale approccio deriva da due elementi. Primo, la scarsa credibilità di cui gode il presidente americano in Europa. Secondo, la capacità che la Russia ha assunto negli ultimi anni di orientare il dibattito, con campagne ben orchestrate di disinformazione sui media tradizionali e, soprattutto, sui social media. È degli ultimi giorni la notizia del presunto troll russo che, con il nome fittizio di Alice Donovan, ha pubblicato decide di articoli su quotidiani online americani con chiara impronta filorussa. RussiaToday e Sputnik, canali satellitari a diffusione mondiale, producono ogni giorno, anche in lingua italiana, decine di articoli con un orientamento ben definito.

Come dimenticare poi le accuse di ingerenza nel referendum sulla Brexit e in quello sull’indipendenza dalla Catalogna. Per non parlare delle interferenze nella campagna elettorale americana che ha portato Trump alla Casa Bianca. Mosca continua a smentire ma, nell’epoca della post-verità, che tutto ciò sia vero ha poca importanza. Già la suggestione che la Russia sia in grado di orientare le elezioni del Paese più potente al mondo ha degli effetti concreti e reali che vanno a beneficio dei progetti putiniani, e cioè seminare discordia nella società americana e minare l’influenza globale di Washington. Se ci riesce con gli Stati Uniti, quanta difficoltà potrebbe avere a farlo con un medio Paese europeo?

La guerra dell’informazione è reale e si sta combattendo ora.

Molto meno informativa ma altrettanto reale è la guerra che imperversa in Ucraina, e sui cui tuttavia si assiste, anche in Italia, alla “crescita di un movimento di opinione teso a minimizzare la gravità delle condizioni in cui ancora oggi si trova il Paese”, ha scritto Mieli sul CorSera. L’impressione è che sulla questione di vedano e si vogliano presentare Stati Uniti e Russia allo stesso modo, con l’unica differenza che solo da est è arrivata un’aggressione militare a tutti gli effetti, per quanto mai confermata da Mosca e comunque giustificata dalla necessità di protezione delle popolazioni russofone.

Non può essere di certo giustificato allo stesso modo, invece, l’attivismo russo che la Nato, sempre negli ultimi giorni, ha riscontrato nell’Atlantico settentrionale, “qualcosa di mai visto prima”, ha detto il comandante della forze sottomarine dell’Alleanza Andrew Lennon, preoccupato dell’infrastruttura subacquea che assicura connessioni e comunicazioni tra nord America ed Europa.

Con un approccio a tutto tondo, tra hard e soft power, la Russia si è dunque ormai riappropriata del proprio status di superpotenza, nonostante le difficoltà interne (con un Pil che Parsi ricorda essere inferiore a quello della Corea del Sud, una vera e propria emorragia demografica e un sistema politico bloccato). Sebbene con un leggero ritardo, gli Stati Uniti sembrano ora essersene accorti. La National security strategy presentata da Trump definisce la Russia una potenza “revisionista”, un competitor con cui comunque non esclude ipotesi di collaborazione, forse inevitabile sul fronte della lotta al terrorismo. E proprio questo ci sembra l’approccio più condivisibile.

In tale competizione, il nostro Paese farebbe forse bene a ricordare con quale delle due potenze ha una partnership strategica che dura da decenni e quale, ha scritto Parsi sull’Avvenire, “resta una potenza illiberale, tutt’altro che incline alla moderazione, destabilizzante”. A testimoniarlo, da ultima, è stata l’esclusione di Alexeij Navalny, ritenuto il primo avversario di Putin, dalla prossima corsa per il Cremlino, spianando la strada al quarto mandato del presidente. “Un declino aggressivo”, scrive Parsi, che va riconosciuto con realismo, evitando di esporsi a ipocrisie e facili antiamericanismi che proprio non rispondono agli interessi italiani.


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