Si chiama Burkan-2, è un missile balistico a medio raggio e può superare i mille chilometri. È questo il vettore che i ribelli Houti che combattono in Yemen hanno rivendicato di aver lanciato oggi contro il palazzo reale di Riad, in Arabia Saudita, e che la Coalizione araba ha annunciato di aver intercettato. Dopo le preoccupazioni derivanti dal programma missilistico nordcoreano, il lancio odierno riaccende i riflettori sui trend globali di sviluppo dei sistemi missilistici, obiettivo di ogni Paese che voglia entrare o confermarsi nel “club nucleare”. Nessun tipo di arma di distruzione di massa (bomba H compresa) può essere efficace senza un vettore in grado di trasportarla penetrando sistemi di difesa sempre più moderni. Se la guerra in Yemen si conquista con questo lancio un nuovo spazio nella cronaca missilistica, sembra legittimo domandarsi a che punto siano arrivati Iran, Pakistan e India.
I governi di Nuova Delhi e Islamabad procedono spediti sul binario della modernizzazione dei rispettivi arsenali, rendendo il subcontinente indiano tra le regioni a più forte competizione nucleare al mondo. A causa del loro storico antagonismo, i programmi nucleari dei due Paesi, con annesse tecnologie missilistiche, vengono generalmente declinati insieme, come frutto di una competizione dualistica quasi sospesa rispetto al resto del mondo. In realtà, ci sono alcune differenze rilevanti, sia per strategie sia per capacità, nel modo in cui gli obiettivi nucleari e missilistici vengono perseguiti. Il Pakistan sembra legato a una visione rigidamente anti-indiana del proprio programma, preferendo sviluppare e testare missili balistici e da crociera a corto-medio raggio, nel tentativo così di bilanciare la superiorità convenzionale delle Forza armate indiane.
Al contrario, l’India – potenza in ascesa con l’approvazione degli Stati Uniti, che cercano un partner affidabile nella regione per contrastare Pechino – sta da anni abbracciando un approccio regionale più ampio. Il mantenimento della stabilità strategica in Asia e Pacifico, e il potenziamento della capacità di deterrenza contro le ambizioni cinesi sullo stesso scacchiere sembrano i principali obiettivi del governo di Nuova Delhi. L’appoggio Usa, la tradizionale politica del “no first use” e i tentativi di avvicinamento diplomatico alla Cina promossi dal primo ministro Narendra Modi, hanno permesso all’India di rafforzare il proprio programma missilistico senza incorrere in particolari rimostranze da parte della comunità internazionale. Nel 2016, l’adesione al regime di controllo sulle tecnologie missilistiche (Mtcr) ha sancito il tutto, dimostrando tra l’altro comeil Paese punti sullo sviluppo di capacità domestiche più che sull’import. Al contrario, il Pakistan continua ad appoggiarsi sull’assistenza esterna, in particolare da Cina e Corea del Nord, entrambi fuori dall’Mtcr e contenti di infastidire rispettivamente India e Stati Uniti.
Con tali obiettivi, i due Paesi del subcontinente hanno dato forte priorità alla modernizzazione e differenziazione dei propri arsenali. Se questo è comune a tutte le nove potenze nucleari, è però indicativo il fatto che solo India e Pakistan – oltre alla Corea del Nord – abbiamo aumentato il numero di armi nucleari a disposizione dal 2016 al 2017 (dati Sipri 2017). Le diverse strategie si riflettono sui programmi missilistici. L’India continua a dare priorità alla famiglia di missili balistici land-based Agni, nonostante dedichi parallelamente grande attenzione anche a sistemi navali e sottomarini, e alla tecnologia Mirv (testate multiple indipendenti). A dicembre 2016, è stato testato per la quarta volta l’Agni V, missile balistico quasi intercontinentale (con una gittata superiore a 5mila km), equipaggiabile con Mirv, a tre stadi con propellente solido che, rispetto al liquido, aumenta l’utilità militare non avendo bisogno di rifornimento immediato prima del lancio. La famiglia di missili Prithvi copre il corto raggio (Srbm, sotto i mille km di gittata), mentre gli Agni I e II il medio (Mrbm, per definizione con gittata inferiore ai 3mila km). L’Agni III (in foto) e il missile a due stadi e propellente solido Agni IV, non ancora in servizio, hanno gittata intermedia (Irbm), con un range massimo rispettivamente di 5mila e 4mila km. Non ci sono dettagli sull’Agni VI, considerato in fase di sviluppo per un range di almeno 10mila km.
Per quanto riguarda la gittata, il Pakistan appare meno ambizioso. Gli sforzi di ricerca e sviluppo sono orientati su missili balistici tattici e campali e sulla tecnologia Mirv, con la finalità di bilanciare la forza indiana anche in casi di guerra limitata e, parallelamente, di stressare le difesa di Nuova Delhi minacciando di colpire ogni punto del suo territorio. Come evidenziato dal Center for strategic and international studies (Csis), i missili balistici Hatf I e Nasr (o Hatf IX, da piattaforma per lanci multipli, con un test riportato a luglio 2017) hanno gittata inferiore ai 100 km. I missili Abdali (Hatf II), Ghaznavi (Hatf III) e Shaheen I (Hatf IV) sono Srbm, mentre i Ghauri (Hatf V) e gli Shaheen II (Hatf VI) sono Mrbm con gittata inferiore ai 2mila km. In fase di sviluppo ci sarebbero poi due missili con gittate superiori: Shaheen III e Ababeel (rispettivamente 2.750 e 2.200 km). Secondo i pakistani, l’Ababeel, il cui primo test è stato riportato a gennaio scorso, sarebbe in grado di trasportare testate multiple indipendenti. Entrambi i Paesi stanno poi tentando di dotarsi della “second strike capability”, elemento che porta i rispettivi governi a importanti investimenti sulla componente navale e sottomarina della forza nucleare. Ad aprile, la Marina indiana ha condotto il primo test del Brahmos, un missile da crociera acqua-aria, supersonico a due stadi, con gittata massima di 300 km. A gennaio, è stato invece riportato il primo test del pakistano Babur 3, un missile da crociera lanciato da sottomarini che avrebbe una gittata di 450 km.
Anche l’Iran sta perseguendo obiettivi di modernizzazione e diversificazione del proprio arsenale. In attesa dello scongelamento del programma nucleare, la componente missilistica procede spedita. Il Joint comprehensive plan of action (Jcpoa) non parla dei missili di Teheran. A essi è dedicata la risoluzione 2231 del 2015 del Consiglio di sicurezza dell’Onu, la quale però “invita” (e non “obbliga” come la precedente 1929 del 2010) l’Iran a sospendere ogni attività sui missili balistici. Ciò lascia ampi spazi alle ambizioni balistiche di Teheran, soprattutto a quelle che il governo definisce “non concepite per trasportare armi nucleari”. Sanzioni, deterrenza e restrizioni all’import non hanno impedito all’Iran di accrescere il proprio arsenale sotto forma di programma per lanciatori spaziali. D’altra parte, per il regime degli Ayatollah ciò significa aggiungere un potente strumento di deterrenza alla cosiddetta “difesa a mosaico”, composta da strategie asimmetriche e diversificate. Il tutto è diretto sia contro i competitor regionali (Arabia Saudita e Israele su tutti), sia contro gli Stati Uniti. Oltre alla deterrenza, il programma missilistico è ormai diventato un elemento essenziale della dottrina militare iraniana, nonché un mezzo di influenza internazionale. Fuori dall’Mtcr, l’Iran esporta tecnologie missilistiche verso i propri proxy (Hezbollah, il regime di Assad in Siria e verosimilmente anche i ribelli Houti in Yemen).
Così, in attesa di riattivare il programma nucleare, l’arsenale balistico iraniano già include dai 200 ai 300 tra Shahab 1 e Shahab 2 (Srbm fino a 500 km a propellente liquido), basati sullo Scud nordcoreano. A essi si aggiungono i Fateh 110 a propellente solido con una gittata inferiore ai 300 km, e i Fateh 313, esibiti nel 2015 e annunciati con gittata di 500 km. I missili balistici Shahab 3 e Ghadr 1 rappresentano la componente a medio raggio (arrivano fino a 1.950 km). A 2mila km arriverebbe invece il Sejjil, missile a sviluppo domestico su cui restano alcune incertezze non essendo stati riportati test dal 2011. Il Khorramshahr, che si è guadagnato l’attenzione mondiale con il presunto test dello scorso 23 settembre – su cui permane più di qualche dubbio –, avrebbe la stessa gittata, mentre il range più ampio (fino a 3mila km) apparterrebbe al Soumar, missile da crociera già operativo. Poco si sa del vettore spaziale Simorgh, del quale è stato riportato un lancio nell’aprile 2016. Per gli Stati Uniti si tratta di un “Icbm class booster”, ma molti esperti sono dubbiosi sul fatto che l’Iran abbia già sviluppato testate e veicoli di rientro.
Nonostante la più che probabile esagerazione dei media di Stato riguardo l’efficienza e la precisione dei vettori iraniani, è innegabile che gli sforzi di Teheran abbiano prodotto risultati notevoli. L’accordo sul nucleare non ha fermato lo sviluppo del programma missilistico, e ora le critiche della nuova amministrazione Usa contro il Jcpoa rischiano di dare un’ulteriore accelerazione. Lo ha dimostrato proprio il recente e presupposto test del Khorramshahr, considerato una risposta al discorso del presidente Donald Trump all’Assemblea generale della Nazioni Unite. D’altra parte, bisogna riconoscere che proprio i progressi del programma missilistico iraniano hanno dimostrato i limiti del regime di restrizioni e sanzioni, chiamando la comunità internazionale a esplorare nuovi approcci.