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Perché sinistra e sindacato si dividono su lavoro e welfare

Mappamondo luce

Perché la sinistra e il sindacato si dividono sul lavoro e sul welfare? Domanda semplice, risposta difficile. Anche perché collegata ad altre domande molto più complesse. Ad esempio: esiste ancora la sinistra per come la pensiamo noi? Esiste ancora il sindacato che abbiamo in passato considerato il guardiano primo del lavoro dipendente? Ma la domanda di tutte le domande, quella da cui derivano tutte le altre, è una sola: esiste ancora il lavoro dipendente come lo abbiamo inteso nel passato prossimo che abbiamo vissuto?

Questo è un primo dato di fatto. Siamo in un mondo diverso, un mondo dove, come raccontava un recente articolo, il gusto per la divisione è tale che preferisce far vincere l’avversario anziché ritrovarsi quanto basta per essere competitivi. E’ la sindrome del palio di Siena: meglio perdere che veder vincere l’avversario. Contrada contro contrada e, soprattutto, tutti contro tutti. Anche perché la stragrande maggioranza degli elettori ha memoria corta su chi rappresenta chi e, soprattutto, sui programmi. Quelli concreti, quelli sul rilancio del mercato del lavoro o sull’economia. Materia prima per uscire dai confronti da talk show e finalizzare l’attenzione degli elettori.

Il problema non è semplice perché dobbiamo essere democratici senza dimenticare che viviamo nell’era della Rete. E, con la Rete e i suoi Titani, i social network, è arrivata la disintermediazione tra base e vertice, tra cittadino, politica e governo. Un sistema che collassa qualsiasi rapporto come dentro un “buco nero” mettendo in collegamento diretto i soggetti in gioco, che siano il Premier o uno qualsiasi di noi. Come dire: l’inferno della rappresentanza intermedia. Molti dicono: è molto meglio il rapporto diretto dove l’alto può rispondere senza intermediari al basso facendogli arrivare più velocemente il messaggio. E (teoricamente) viceversa

D’altra parte, il Mondo 4.0 che stiamo vivendo appare denso di opportunità, ma anche di incognite. Un mondo veloce, complesso e rischiosissimo perché disruptive. Senza dimenticare la velocità con la quale tutto sta avvenendo. Una grande innovazione perché le vecchie rivoluzioni erano lente, si sviluppavano in un arco temporale al di fuori della normale aspettativa di vita delle persone.

Il Mondo 4.0, invece, non solo è già iniziato ma si gioca in un tempo molto più breve della nostra vita professionale media. Una sola conseguenza: il rischio di diventare rapidamente obsoleti è altissimo. Ci sono quasi 9 milioni di posti di lavoro, come dice l’Istat, a rischio nel nostro Paese nei prossimi 5-7 anni. Persone che possono essere sostituite dalle macchine. Siamo in uno tsunami digitale. Airbnb, Booking, Uber raccontano che, se si inventano nuovi mercati, si dà vita ad una nuova catena di valore e a nuove competenze. Il passato diventa obsoleto in un attimo, e le vecchie competenze vengono spazzate via dalla disruptive innovation e dall’ibridazione.

Ecco, forse, perché la sinistra e il sindacato si dividono nelle pieghe di questo nuovo mondo. Perché le competenze del Mondo 4.0 dovranno essere sempre più legate ad una formazione che non insegni a giovani e non giovani “le cose”, ma soprattutto il modo in cui andare a cercarle nel mare infinito della conoscenza in rete. E questo è difficile da metabolizzare per sinistra e sindacato. Le ideologie non esistono più e i riferimenti del passato non rappresentano più le stelle polari con cui orientarsi. Bisogna riposizionarsi. Così ci sono quelli che lo fanno mantenendo salde le opzioni del passato (che non valgono più) e quelli che pensano al futuro ma si spostano ideologicamente in uno spazio che ancora non esiste e che cercano di occupare con istanze (quelle prevalenti dell’impresa) che negano, però, le appartenenze del passato prossimo della sinistra stessa.

Ma la cosa successiva da chiedersi è come sia successo tutto questo. Anche qui la risposta è complessa almeno quanto la domanda. Ma partiamo dall’inizio. Con la globalizzazione, il potere (quello vero) è migrato dallo Stato-Nazione a uno spazio sopranazionale. La politica, quella dei territori e delle reti delle piccole relazioni, invece, è ancora locale, relegata entro i confini angusti del territorio nazionale.

Se guardassimo la Terra da un satellite, ci sembrerebbe una cartina simile a quella dell’Alto Medioevo: grandi imperi che si distendono a dismisura (Usa, Ue, Russia, Cina con relative zone di influenza) e un insieme di feudi sparsi nei punti più strategici della Rete (con relativi snodi gerarchici locali, le città stato: Londra, Parigi, New York, Tokio, Shangai…). May, Gentiloni, Renzi, Macron, Le Pen, Rajoy o Tsipras sono i signorotti feudali di questo mondo dove si consuma il divorzio sempre più evidente tra potere (la facoltà strategica di porre in atto un progetto) e la politica (la capacità concreta di decidere che cosa fare o non fare). I signorotti vorrebbero essere potentissimi a livello locale perché sono debolissimi a livello globale.

Nessuno degli organi politici esistenti, ereditati dal passato e creati per servire lo Stato-Nazione, ha le chiavi per uscire da questa situazione. Ecco perché, in questo nuovo contesto, la politica (con i suoi partiti) deve trovare una nuova collocazione e nuove strategie. L’innovazione tattica, apportata da fenomeni come M5S di Grillo, la Lega di Salvini e il Pd di Renzi è basata su leader “gerarchici” di rete che collassano il rapporto con cittadini, quanto meno in termini di comunicazione.

Ma ecco che arriva il problema, l’inciampo, lo tsunami della presunzione di quelli che scambiano il mezzo (la rete) per il fine (la leadership). Perché, contrariamente al passato, in questo nuovo mondo di democrazia “quasi” diretta le gerarchie sono naturali e non prescritte dal fatto di essere il leader di un partito o di uno Stato. Nel sistema delle reti interdipendenti, la leadership e il carisma si costruiscono nell’atto stesso dell’esercizio del potere perché nessun leader, se non nel breve periodo, ha un pieno potere di comando o sanzione. Nemmeno Trump o Putin.

L’alternativa è quella di evitare atteggiamenti divini o cesaristici e approcciare pragmaticamente le situazioni, “andando a leva” e sfruttando tutte le risorse di rete disponibili, comprese quelle della rappresentanza. Invece, molti leader, anche e soprattutto italiani, cercano la scorciatoia. Perché invece di sfruttare tutte le risorse, rappresentanza compresa, cercano solo di sfruttare le presunte opportunità del rapporto diretto con i cittadini moltiplicando un risultato di base (il consenso elettorale delle Europee per Renzi, i sondaggi per Salvini, il voto di protesta in Rete per Grillo) per dimostrare che “gli italiani (o chi per loro) lo vogliono”. Un po’ come “perché Dio lo vuole” dei fondamentalismi religiosi o delle decisioni prese “in nome del Papa Re”.

Come uscire da questo gioco a perdere? La risposta, a mio parere, non può che essere una: rimettersi in gioco sempre e comunque. E’ questa la grande sfida culturale del Mondo 4.0. Una sfida che impatta tutti e non solo l’industria: investe l’economia, la finanza, il lavoro, la politica, la società. Un nuovo stile di vita, un nuovo modo di affrontare un mondo in continuo mutamento.

Per il mondo del lavoro, in particolare, sta mutando anche la sua “fisionomia giuridica” e il rapporto fisico con lo stesso luogo di lavoro. Smart working è la nuova parola d’ordine: diminuisce gli impatti sociali, aumenta la produttività. Così come dai blocchi sociali omogenei si passa a “nuove aree di interesse collettivo”. Il modello tradizionale di rappresentanza si evolve verso modelli di alleanze sociali. L’Alleanza contro la Povertà guidata da Roberto Rossini o l’Alleanza per lo Sviluppo Sostenibile coordinata da Enrico Giovannini o la stessa Confassociazioni sono le traccianti di sviluppo di questa evoluzione che vede il “fare rete” al centro del cambiamento.

Ecco perché, sia che parliamo di sinistra, sia che cerchiamo la sinergia con il sindacato, il modello di rappresentanza economica e sociale “tarato” sui blocchi sociali omogenei, è in difficolta in termini di risposta coerente e univoca. Anche perché l’attuale contrattazione collettiva fatica a rappresentare e tutelare efficacemente la mutazione delle individualità lavorative e professionali e, nel contempo, i vincoli di titolarità che collegano contrattazione e rappresentanza non rispondono alla evoluzione del mondo associativo, sindacale e partitica.

Il passaggio strategico è quello dal paradigma “uguaglianza” al paradigma “diversità”. La diversificazione è un valore, l’uniformità un problema, l’alleanza è probabilmente tutto. Ma non basta: in un mondo iper-diversificato e “ineguale”, fare rete è, ancora una volta, un valore inestimabile. E’ il principio della staffetta: correre con i primi senza dimenticare gli altri, anche se fossero gli ultimi.

Questo è, a mio parere, il problema che divide parti della sinistra e del sindacato in questo momento. E’ un momento di transizione ancora irrisolto. Nessuno ha ancora deciso se è più importante correre con i primi (dimenticando spesso gli ultimi) come fanno alcuni parti di sinistra e sindacato stesso. O se valga la pena di fare rete e aspettare gli altri, anche se fossero gli ultimi, per preservare il senso della giustizia e del capitale sociale. Magari andando un po’ più lenti.

Ed è in questa continua schizofrenia che si consumano divisioni e mancate visioni fra sinistra e sindacato in questa complessa fase del nostro Paese.

 

Una versione di questo articolo è stata pubblicata sulla newsletter dell’Associazione Nuovi Lavori

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