È passato quasi un anno. L’elezione di Donald Trump ha rotto ogni schema politico e comunicativo presistente. Un tycoon arriva alla Casa Bianca battendo l’ex first lady e i repubblicani stessi, che non lo hanno mai appoggiato. La vittoria di Trump ha stravolto gli schemi comunicativi tradizionali dialogando direttamente con il popolo del web, senza filtri. Se è vero che, come si suol dire, non è tutto oro quel che luccica, altrettanto potrebbe dirsi al contrario. Una lettura realistica e non basata sul pregiudizio è quella emersa dal dibattito che si è svolto al Museo archeologico nazionale di Napoli, in occasione della tavola rotonda “Il caso America. Un anno di Trump” organizzata da Il Sabato delle Idee.
CHE COSA SI È DETTO
Chi è davvero il presidente degli Stati Uniti? Perché la stampa americana continua ad attaccarlo senza sosta? I giornalisti e gli esperti presenti hanno provato a spiegare il “fenomeno Trump” nella città che ospita una importante base Nato e una folta comunità americana. Il sottosegretario agli Affari Esteri ha ammesso che l’elite della stampa americana è contro il presidente. Questo dà l’impressione all’opinione pubblica, di mezzo mondo, che il suo mandato abbia i mesi contati. Una storia che va avanti dal primo giorno alla Casa Bianca ma la realtà è ben diversa. Il sottosegretario agli Esteri ha provato a dare una spiegazione: “Trump ha lottato contro partito democratico e contro il suo stesso partito. Non ha vinto per i tweet o per gli slogan forti, che ha usato durante la campagna elettorale, ma perché c’è stata una rottura più profonda. Una frattura che riguarda la politica americana e che comincia con la grande crisi del 2008”. La vittoria dell’imprenditore di New York nascerebbe quindi dalle difficoltà della presidenza Obama. Non è un caso che l’imprenditore americano, nel suo discorso di insediamento, dichiari: “Vi salvo da una carneficina e vi farò grandi”. Un’accusa rivolta non solo al suo predecessore ma all’intero establishment americano, contro cui si era scagliato durante l’aggressiva campagna elettorale. A poco sono serviti gli 8 miliardi investiti da Obama per rilanciare l’economia dopo la crisi. Secondo il sottosegretario “Trump sa bene che c’è stata una ripresa dell’occupazione ma i disoccupati di lungo termine sono una piega ancora esistente negli Stati Uniti. Quindi, la forbice di disuguaglianza è diventata insopportabile per molti e questo ha provocato la rottura del legame tra i sistemi finanziari,la democrazia e la rappresentanza politica”. Il ragionamento di Amendola sottolinea la criticità della relazione fra elite e popolo e mette in guardia da tentazioni sempliciste e dall’uso indistinto del termine “populismo”, riconoscendo a Trump la coerenza di una posizione non banale che poggia sul concetto di sovranità nazionale. Per l’autorevole esponente del Pd, il presidente americano non può certo dirti progressista ma allo stesso modo il progressismo non può non interrogarsi con serietà sulla sua ascesa alla Casa Bianca.
AMERICAN FIRST O TRUMP FIRST?
Dando retta ai network americani mainstream, si potrebbe propendere per una bocciatura tout court della nuova Amministrazione. È emblematico, l’articolo del New York Times che confronta le bugie dette da Obama durante la presidenza, una per ogni anno, e quelle dette da Trump in circa un anno di presidenza, almeno cento secondo il quotidiano americano. “È la democrazia, bellezza” ha ricordato Paolo Messa che ha voluto ricordare come “Gli Stati Uniti, a differenza di altre potenze come la Cina, la Russia o i paesi del Golfo, hanno un dibattito pubblico trasparente. Grazie ai mezzi di comunicazione americani, conosciamo in tempo reale tutto ciò che avviene nel paese, comprese le critiche feroci nei confronti del presidente”. Rispondendo alla domanda del prof. Salvatore, il direttore del Centro Studi Americani ha spiegato che “Trump non è un uomo solo al comando perché l’architettura istituzionale degli Stati Uniti, basata sul principio del check and balance, determina quei contrappesi che vediamo chiaramente nel rapporto fra Casa Bianca e Congresso senza dimenticare il ruolo della giustizia”. Per quanto sia volutamente disruptive anche Trump deve fare i conti la forza di una democrazia che resta fortissima.
Secondo Marco De Marco, editorialista del Corriere della Sera, ci sarebbe stata una grande sottovalutazione della legge elettorale negli Usa ed è per questo che la gran parte dell’opinione pubblica è rimasta sorpresa dalla vittoria dell’outsider di New York. Trump, per Demarco, “capisce che c’è un popolo che necessita di una guida in grado di comunicare con un linguaggio semplice e molto sintetico”. Questo spiegherebbe come il suo successo su Twitter non sarebbe casuale. La comunicazione del presidente americano ha rotto gli schemi preesistenti non essendo studiata a tavolino, come avveniva con Obama. Agli attacchi dei media e dei nemici, Trump non risponde con un diplomatico “no comment” ma in modalità “no filter”.
È infine il professor Mauro Calise a dare una interpretazione politologica al fenomeno spiegando come lo slogan “America First” nasconda in realtà il paradigma del “Me First”. Trump quindi come una sorta di apologia dell’individualismo occidentale. Un modello di pensiero che, sostenuto dal cambiamento digitale anche nella comunicazione, rischia di avere un profondo impatto politico oltre i confini degli Stati Uniti. Insomma, visto da Napoli, Trump è molto meno un oggetto misterioso e deplorevole come si tenderebbe a capire leggendo i giornali quanti piuttosto appare conseguenza di una crisi non ancora compresa fino in fondo.