Germano Dottori, docente di Studi Strategici alla Luiss e consulente scientifico di Limes, non è sorpreso dall’esito del voto all’Assemblea Generale Onu su Donald Trump e Gerusalemme. Che considera, in ogni caso, “totalmente ininfluente”, diversamente dalle minacce di The Donald ai Paesi non allineati al nuovo corso americano. Un nuovo corso che trova il nostro Paese in posizione di sostanziale dissenso, come dimostrato dal voto italiano in Assemblea Generale, sintonizzato con la linea di appoggio all’Islam politico che Dottori attribuisce al nostro governo e che egli reputa problematico. L’America ha infatti scelto di stare con Riad e il Cairo, e se non cambiamo rotta, suggerisce Dottori, rischiamo di rimanere fuori dai giochi. Una posizione “miope e rischiosa”, quella dell’Italia, ancora sotto choc per il trionfo di Trump alle urne, nonostante sia passato oltre un anno. Votare a New York la risoluzione scritta da Turchia e Yemen per contrastare Trump è la dimostrazione come, a Roma, non si sia ancora capito che la partita è cambiata.
Prof. Dottori, l’Assemblea Generale dell’Onu ha votato a grande maggioranza la risoluzione che sconfessa la dichiarazione con cui Trump ha riconosciuto Gerusalemme come capitale di Israele. La sua valutazione?
Sarebbe stato sorprendente un risultato diverso. I numeri che abbiamo registrato sono gli stessi che si sono constatati ogni qual volta questioni sensibili concernenti i rapporti tra Israele e i Paesi arabi sono stati sottoposti all’attenzione dell’Assemblea Generale. Quindi non mi meraviglio, se non del grande interesse che ha suscitato questo pronunciamento, a tutti gli effetti totalmente ininfluente. L’Assemblea non è il Consiglio di Sicurezza. E il presunto isolamento dell’America ricorda tanto quello dell’Europa di cui parlava un tempo il Times di Londra quando la Manica era in tempesta. Paradossalmente, la vera conseguenza sono le possibili ritorsioni minacciate da Nikki Haley, che l’Amministrazione Trump potrebbe decidere di varare nei confronti degli Stati che hanno deluso le sue aspettative.
L’Europa ha reagito compatta alla decisione di Trump, condannandola. È un riflesso condizionato?
Non mi sembra che l’Unione Europea abbia votato compatta. Ha votato compattamente contro gli Stati Uniti solo quella parte dell’Europa che si sente più vicina alla Germania. L’Europa del Trimarium ha in gran parte optato per l’astensione, come credo avremmo dovuto fare noi. Ma a quanto pare, l’attuale Governo del nostro paese rimane aderente ad una linea antagonista, quella che guarda con simpatia a quell’Islam Politico che invece Stati Uniti, o almeno la Casa Bianca, Russia e Cina intendono in qualche modo debellare.
Come spiega il voto di ieri dell’Italia, più quello con cui al Consiglio di Sicurezza ha appoggiato la risoluzione di censura della dichiarazione di Trump?
Le chiavi di lettura sono molteplici. L’Italia di Paolo Gentiloni è con la Germania e in Medio Oriente è tuttora molto vicina ad Iran, Turchia e Qatar, mentre gli Stati Uniti sono con Riyadh, Gerusalemme e l’Egitto. Certo, ci sono stati tentativi recenti da parte italiana di avviare un riequilibrio, cercando interlocuzioni con l’Arabia Saudita. Ma la situazione è chiara: siamo con l’altro raggruppamento. D’altra parte, c’è un’evidente nostalgia del grosso del sistema politico italiano, che cerca ancora l’appoggio dell’America liberal malgrado sia attualmente all’opposizione. E’ una politica a mio avviso miope e rischiosa. Prima si adotta un atteggiamento più realistico e meglio sarà. Perché Trump è un’opportunità soprattutto in termini di recupero della nostra sovranità nazionale. Ne abbiamo da poco avuta una prova: la sortita dell’ex Vice-presidente Joe Biden, che ha addebitato alle fake news di origine russa l’esito del referendum del 4 dicembre. Trump invece rimane silente, malgrado in Italia non manchino coloro che lo apprezzano e magari gradirebbero anche un suo endorsement. Per gli uni, la sovranità nazionale può e deve essere calpestata se l’affermazione di certi valori lo esige. Per il Presidente in carica, invece, non si tocca. Il suo è un approccio che mi piace molto e giudico preferibile.
L’annuncio di Trump è stato secondo lei dettato da interessi elettorali, o c’è altro dietro?
Condivido la ricostruzione degli eventi fatta dal New York Times, peraltro con l’intento di provocare imbarazzo in Arabia Saudita e forse di contribuire al sabotaggio del piano al quale americani e sauditi lavoravano da molti mesi. Nelle intenzioni di Trump, la pace tra israeliani e palestinesi l’avrebbe dovuta negoziare il nuovo uomo forte di Riyadh, Mohammed bin Salman, assumendo a traguardo una variante del vecchio piano concepito a suo tempo da re Abdallah, secondo la quale Gerusalemme avrebbe dovuto essere divisa, attribuendo lo status di capitale della Repubblica palestinese futura ad un sobborgo orientale della Città santa, un posto che si chiama Abu Dis e si trova al di là della famosa barriera eretta da Israele per proteggersi dalle infiltrazioni terroristiche. Bin Salman però non ce l’ha fatta, perché Abu Mazen ha avuto paura che l’accettazione del progetto saudita ne potesse compromettere la sopravvivenza politica, probabilmente con qualche ragione. Trump è entrato quindi nella partita per sparigliare le carte e forzare la mano ai palestinesi. I risultati sono per ora incerti, ma non necessariamente così foschi come vengono dipinti. Guardiamo ai fatti: ci sono state proteste, di cui vediamo però sempre immagini in campo corto, chissà come mai. Ma chi le anima? Sono per lo più le forze sconfitte dal tramonto delle Primavere Arabe ora alla disperata ricerca di una rivincita. Alla fine però, stringi stringi, il vertice della vecchia Conferenza islamica ad Ankara si è concluso con una dichiarazione che indica Gerusalemme Est quale capitale del futuro Stato palestinese. Praticamente, ora si discute di una partizione e dei relativi confini, argomento nel quale Trump non a caso non è entrato. Ditemi voi chi se ne è accorto.
La stampa ha descritto un mondo arabo infiammato dopo l’annuncio di Trump, eppure la reazione è stata contenuta. Come mai?
Mi sembra sia ovvio. A cercare una rivincita non è solo l’Islam Politico della Fratellanza Musulmana, strumento della politica regionale di potenza della Turchia e dello stesso Qatar, ora allineati all’Iran, ma anche tutti coloro che negli Stati Uniti avversano la nuova Amministrazione, contro la quale il grosso dei media continua la guerra senza quartiere iniziata ai tempi del Trump candidato. In effetti, ormai si congiungono due urti trasversali: a quello che contrappone sostenitori e nemici dell’Islam Politico si è aggiunta la guerra civile light che imperversa negli Stati Uniti. I liberal sono con la Fratellanza Musulmana e la Repubblica islamica iraniana, che vantano radici comuni, mentre Trump sta tentando con Putin e Mohamed bin Salman di restaurare l’ordine, prima di alleggerire l’impronta americana nel mondo.
Quanto pesano gli sviluppi della guerra in Siria sugli eventi odierni?
Mi paiono al momento marginali, ma ci sono degli elementi da tenere sottocchio. La guerra civile si va concludendo con la vittoria di Bashar al-Assad. Molto più dell’intervento dei Pasdaran e dell’Hezbollah, a determinarla è stata l’azione russa che ha costretto la Turchia ad abbandonare la mischia. Lo Stato Islamico, infatti, è morto quando Ankara si è riconciliata con Mosca e ha chiuso le sue frontiere, tagliando i flussi di ogni genere che permettevano a Daesh di alimentare il proprio sforzo. Non è però pensabile che la Russia abbia combattuto per regalare la Siria all’Iran. Io penso invece che Mosca si sia riavvicinata notevolmente all’Arabia Saudita e che Trump si attenda dai russi un contributo al contenimento delle aspirazioni regionali iraniane. Si tratta di un esercizio difficile per Putin, ma ineludibile: il futuro della Russia dipende molto dalle scelte in materia di petrolio fatte dalla monarchia saudita. Sono convinto che tra la Casa Bianca e il Cremlino ci sia un accordo di fondo sul destino dell’area. E forse anche sul prezzo del greggio.
Quante probabilità ha il piano di pace di Trump di decollare, dopo la presa di posizione su Gerusalemme?
Le stesse di prima, se non qualcuna di più. Tutto dipende dai rapporti relativi di forza che si stabiliranno tra sostenitori e nemici dell’Islam Politico. Anche Abu Mazen probabilmente capirà che la propria posizione intransigente implicherà fatalmente il ridimensionamento del ruolo di Fatah rispetto a quello di Hamas. Siamo sinceri: nessuno ha mai creduto che Israele potesse rinunciare a Gerusalemme o che intenda in qualche momento futuro accettare il diritto dei profughi palestinesi al ritorno. Si tratta di materie non negoziabili. Io trovo incoraggiante che il mondo musulmano abbia reso noto che accetta la partizione della Città Santa. Tutto è capire quanto debba esser grande Gerusalemme Est. Sui tracciati e sui chilometri quadrati si può trattare.
Potranno mai convivere israeliani e palestinesi in quel fazzoletto di terra?
Mi sembra decisamente improbabile, almeno in un unico Stato. Uno dei miei maestri, Enrico Jacchia, osservava acutamente che libero amore e velo islamico non sono tra loro molto compatibili: una metafora brillante e pertinente, che rende bene l’idea della complessità della sfida. Ed è altrettanto vero che due verità assolute non possono convivere nello stesso pezzo di terra, come sosteneva anni fa Carlo Jean, di cui pure sono stato l’allievo. Va poi tenuto conto del fatto che la coesistenza all’interno di un unico Stato comporterebbe in un arco di tempo ragionevolmente breve la trasformazione demografica di Israele in una direzione ostile agli ebrei. È per questo motivo che tanto Rabin quanto Sharon, non a caso due militari, hanno in passato ceduto territori. Non erano dei compassionevoli samaritani. Per Israele è essenziale che i palestinesi vengano separati e, possibilmente, riuniti in uno Stato edificato in modo tale che non possa mai porsi nelle condizioni di rappresentare una minaccia alla sicurezza israeliana.