Che cosa sta succedendo ad Avigdor Lieberman, ministro della Difesa del governo guidato da Benjamin Netanyahu? L’uber-falco cinquantanovenne fondatore del partito nazionalista Yisrael Beiteinu, alla Knesset dal 1999, più volte ministro, due volte guida della diplomazia israeliana e oggi capo civile dell’esercito (IDF) dello Stato ebraico, sembra aver rinunciato alla sua linea di scontro assoluto con Hamas, il movimento islamista che dal 2007 controlla la Strisca di Gaza e, da allora, continua a bersagliare Israele con missili e razzi. Una minaccia che Lieberman aveva promesso di stroncare quando, tre anni fa, fece campagna elettorale con il portafoglio della Difesa in tasca e che ora, nonostante i lanci di questi giorni, non lo impensierisce più.
O c’è dell’altro, dietro al venir meno delle posizioni intransigenti del capo della Difesa? A chiederselo, sulle colonne del quotidiano on line al Monitor, è Shlomi Eldar, titolare della rubrica “Israel Pulse”, reporter dei canali 1 e 10 della tv israeliana e vincitore del premio Sokolov, il più importante riconoscimento giornalistico di Israele. Il ragionamento di Eldar parte da una constatazione: l’offensiva missilistica da Gaza è ricominciata alla grande da quando, il 6 dicembre scorso, Donald Trump ha annunciato di riconoscere Gerusalemme come capitale dello Stato di Israele.
Gli ultimi lanci risalgono al 29 dicembre, ed erano diretti verso il kibbutz Kfar Aza, dove era in corso i festeggiamenti per il ventiquattresimo compleanno di Oron Shaul, il soldato morto durante l’operazione Margine Protettivo del 2014 – l’ultima delle tre guerre tra Israele e Hamas combattute negli ultimi dieci anni – e il cui corpo non è mai stato restituito alla famiglia. La cerimonia è stata interrotta dall’allarme anti-missile, che ha costretto i partecipanti a cercare riparo nei rifugi costruiti un po’ ovunque nelle località israeliane a ridosso dei confini con la Striscia. Due ordigni sono stati intercettati dal sistema Iron Dome, ma il terzo ha centrato in pieno un edificio, senza fare vittime.
Nonostante tutto, la reazione dell’IDF è stata tenue. Il portavoce ha reso noto che, subito dopo il lancio, carri armati ed aerei hanno aperto il fuoco su due posizioni di Hamas nel nord di Gaza. Ma la voce di Lieberman non si è levata, come nei giorni caldi della campagna elettorale, a chiedere un intervento massiccio contro gli islamisti, né si sono udite richieste di invadere la Striscia o di eliminare fisicamente i leader di Hamas. Al contrario, il ministro ha risposto duramente alle dichiarazioni dell’opposizione, che lo ha accusato di debolezza, sostenendo che esse vogliono trascinare Israele in una campagna militare che non è nell’interesse di Israele. “Almeno per ora”, ha detto Lieberman, “non penso che un’operazione generale a Gaza contro Hamas sia” opportuna. “Hamas non ha interesse in una guerra generale. Coloro che vogliono spingerci a combatterla sono gruppi salafiti, e vedo che alcuni leader dell’opposizione sono interessati alla stessa cosa”.
In queste dichiarazioni, Eldar intravede il segno di una evoluzione nel pensiero di Lieberman. Che avrebbe finalmente e tardivamente capito che la situazione a Gaza è più complicata di quanto gli potesse sembrare al tempo in cui prometteva di invadere Gaza. Qui, a contendere il primato della resistenza con Israele, ci sono infatti diverse sigle ancor più radicali di Hamas. A partire dalla Jihad islamica, cui in effetti lo stesso ministro attribuisce la responsabilità del lancio dei tre missili del 29 dicembre. Gruppi su cui Hamas esercita un controllo limitato, vuoi per un calcolo tattico, vuoi per un’effettiva impossibilità ad esercitare la propria autorità. Attaccare Gaza in risposta ad un lancio di missili, e creare così una nuova crisi umanitaria in un territorio già disastrato, non è nell’interesse di Israele, già oggetto di una condanna universale per le procurate sofferenze del popolo palestinese. I vantaggi ottenuti da un’operazione preventiva contro le formazioni ostili non sarebbero commisurati agli strali che pioverebbero dalla comunità internazionale.
Non è questo, inoltre, il momento di usare il pugno duro. A breve, la Casa Bianca svelerà il suo piano di pace, quell’”accordo definitivo” promesso ripetutamente da Donald Trump che dovrebbe porre fine alla contesa territoriale tra Israele e palestinesi. Israele ha già ottenuto, in anticipo, un prezioso risultato: Gerusalemme capitale. Non è dunque il caso di compromettere gli sforzi americani con un’avventura militare che, sicuramente, riporterebbe il pallino dei colloqui israelo-palestinesi al punto di partenza.
Ecco perché il falco Lieberman, leader dell’ala destra del governo Netanyahu, si è ammansito e assume la fisionomia del realpolitiker. Far cadere nel dimenticatoio le promesse fatte in campagna elettorale val bene una messa, specie se a celebrarla sarà un uomo come Trump che si è rivelato come il presidente americano più vicino ad Israele di tutti i tempi.