Le pensioni sono uno degli elementi principali di questa campagna elettorale e, a prescindere dagli esiti delle elezioni del 4 marzo, lo saranno nella prima parte della prossima legislatura.
Quali che siano le riforme da adottare, occorre basarsi su dati chiari prima di mettere mano ad un sistema previdenziale molto complesso e molto delicato. Altrimenti, non lo si renderà più efficiente e più equo, ma si rischia di aumentare inefficienze ed iniquità. In queste note, si è già visto come il collegamento dell’età legale minima della pensione all’aspettativa di vita rende il sistema fortemente regressivo perché le fasce ad alto reddito, una volta superato, il capo dei 65 anni di età hanno un’aspettativa di vita più lunga, ed in migliori condizioni, delle fasce a basso reddito. Ove a ragione di una lunga emergenza economica e finanziaria, il sistema previdenziale NDC (attualmente in vigore in Italia) non fornisse un pilota automatico tale da segnalare agli individui quando andare in pensione, sarebbe più equo (e più efficiente) un nesso tra requisiti minimi per il pensionamento e il numero di anni in cui si è contribuito al sistema.
Tuttavia, il nodo centrale è se il sistema previdenziale è o non è al collasso e sta o non sta portando al collasso la finanza pubblica italiana. I dati chiave scaturiscono non tanto dalle aggregazioni Istat (ripetute dall’Ocse , dal Fondo monetario e dalla Commissione Europea poiché l’Istat è l’unica fonte da loro utilizzata) ma dall’analisi certosina dei bilanci INPS fatta dal centro studi Orizzonti Previdenziali, guidato dall’ex sottosegretario Alberto Brambilla.
Il primo dato errato riguarda il rapporto tra spesa previdenziale e PIL: non il 18% rispetto ad una media europea inferiore al 15%. Il rapporto è molto più basso se – come sarebbe appropriato – si deducono le spese assistenziali dal totale e le imposte pagate dai pensionati sulle loro annualità (in molti Paesi che adottano il sistema contributivo NDC o le pensioni sono esenti da imposte o vengono pagate sulla parte dell’annualità previdenziale che eccede i contributi versati, per evitare doppia imposizione sulle stesse poste contabili). Nei consuntivi per il 2016 (quelli per il 2017 saranno disponibili solo tra quattro-cinque mesi), la spesa ‘previdenziale’ vera e propria diminuisce da 218 miliardi di euro a 150 miliardi di euro, quindi a meno del 12% del Pil, una delle più basse, in termini di incidenza, dei Paesi industrializzati ad economia di mercato. Nel 2016, i contributi dei ‘futuri pensionati’ sono stati 197 miliardi, ossia con un saldo attivo netto significativo, 47 miliardi.
Inoltre, su 16,1 milioni di pensionati oltre il 51% sono totalmente o parzialmente assistiti dalla fiscalità generale, cioè da tutti i contribuenti. Inoltre ben 8,2 milioni sono assistiti totalmente (oltre 4 milioni) o parzialmente (altri 4) tramite pensioni sociali, assegni sociali, invalidità, accompagnamento, pensioni di guerra (1,5 miliardi dopo oltre 70 anni dalla fine del secondo conflitto mondiale), maggiorazioni sociali, integrazioni al minimo, 14esima mensilità, social card e dal prossimo anno anche con il reddito di inserimento (Rei). Coloro che pagano 50 miliardi di imposte sono quelli che, da lavoratori attivi, più hanno contribuito alle entrate dello Stato e delle autonomie locali. Quindi, le vere e proprie campagne contro “i pensionati d’oro o d’argento” non solo non hanno base ma ove avessero successo procurerebbero un danno all’erario.
Cosa concludere? Quella che sta esplodendo non è la spesa previdenziale in senso stretto ma una parte grandissima della spesa sociale impropriamente classificata come previdenziale a circa trent’anni dalla normativa che separò assistenza da previdenza. La spesa assistenziale di 110 miliardi ed è netta, perché su queste prestazioni non ci sono imposte.
Questi dati meritano di essere sviscerati e dibattuti su Formiche.net. Al fine di agevolare il compito di chi dovrà mettere mano all’assistenza sociale e se del caso alle pensioni.