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Liberi e Uguali. Soprattutto di attaccarsi a vicenda

Grasso, D'alema

L’anelito all’unità è un tormentone che ha attraversato da sempre la storia della sinistra mondiale. Ma la realtà è che è sempre avvenuto il contrario. È la divisione, la litigiosità, il confronto senza esclusione di colpi la vera costante di quella storia. Del resto, per il comunismo ortodosso il nemico è sempre quello alla propria sinistra, se non addirittura al proprio interno. Il più grande ed evidente parodosso è sempre stato proclamare all’infinito l’unità della sinistra (o dei progressisti, o dei lavoratori, o del partito) e poi procedere a colpi di scissioni, lotte intestine, scontri fratricidi e relative scomuniche.

A questa regola non sfugge nemmeno Liberi e Uguali, ultima creatura della gauche italiana. Dal giorno della sua nascita, un mese e mezzo fa, gli “uguali” si sentono soprattutto “liberi” di dire la loro non solo contro i compagni rifiutati (il Pd renziano) ma e soprattutto contro i propri compagni di viaggio. E del resto, quale altro destino poteva esserci per una lista nata da una serie di scissioni? Questione di dna, un po’ come nella favola dello scorpione e della rana: è nella loro natura.

A darsi sulla voce sono un po’ tutti, ma – cosa più grave – soprattutto i più autorevoli esponenti di Leu (il front man Pietro Grasso, la presidente della Camera Laura Boldrini e Massimo D’Alema), ciechi o disinteressati all’effetto che avrà sulla scelta che gli italiani dovranno esprimere a marzo.

L’ultimo episodio scatenante, l’intervista di Massimo D’Alema al Corsera. Reo di aver detto, oltre ad aver inferto una serie di stilettate al suo nemico Matteo Renzi, una cosa nota da tempo ai più e sempre più chiara con l’avvicinarsi del voto: il Rosatellum 2.0 sembra costruito ad arte per non permettere maggioranze chiare ed autonome. E allora “che fare?”, tanto per citare un altro testo sacro del comunismo?

Un vero politico di razza gioca la sua partita come uno scacchista, calcola le possibilità, le mosse dell’avversario, la collocazione dei pezzi, le tattiche di difesa e di attacco, la strategia per conseguire una vittoria o almeno una onorevole “patta”. E’ quello che ha fatto, da politico di scuola, il sempreverde D’Alema. Il problema, è stato il suo ragionamento, non sono i punti percentuali che avrà Liberi e Uguali, anche se importanti tatticamente. Dal punto di vista strategico la questione è semmai cosa accadrà in un parlamento bloccato e senza maggioranza. Se la legge elettorale è stata costruita per uno scopo, quello scopo – nell’analisi dalemiana – è l’accordo di governo tra Berlusconi e il suo giovane “mediocre imitatore” Renzi. Come bloccarlo? D’Alema sa bene che è una chimera pensare che un tale governo possa essere davvero “di scopo” (fare una nuova legge elettorale e poi tornare al voto). In Italia poche cose durano quanto quelle “provvisorie”. Quindi, l’unica via per bloccare la grosse koalition è quella di un governo del presidente, a cui tutti, davvero tutti, se lo vogliono, possono collaborare. Leu compresi.

Ma dire una cosa intelligente, persino banale nei presupposti di partenza, sembra essere sempre un delitto di lesa maestà. La reazione di Pietro Grasso lo dimostra. Ha tuonato: niente governo del presidente, o si torna al voto (per ottenere quale risultato diverso?) o daremo appoggio solo a un governo per fare la legge elettorale (con tutti i limiti che si diceva sulla possibilità di un simile orizzonte temporale). Tutto questo mentre, insieme a Bersani, lancia qualche languida occhiata dalle parti di Grillo. Laura Boldrini, anche lei con legittime aspirazioni di protagonismo nella nuova formazione,  rivendica per le sue idee sulle alleanze “libertà ed uguaglianza” con quelle degli altri, compreso appunto Grasso.

A questo punto c’è solo da rimpiangere chi si è tentato inutilmente prima di “rottamare” e oggi di “collocare di lato”. Non sarà il “Massimo” della simpatia, ma almeno D’Alema lascia trasparire un ragionamento politico, condiviso o meno che sia. Si può criticarne l’acredine un po’ stucchevole verso Renzi, ma almeno sfugge al tratto comune dei politici del nuovo millennio: la retorica declamatoria, personale ed autoreferenziale.

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