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Lotta al terrorismo. Trump come (e più) di Obama

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A che punto è la guerra globale al terrorismo lanciata dagli Stati Uniti all’indomani dei tragici fatti dell’11 settembre 2001? In alto mare o, a seconda dei punti di vista, in pieno corso. È quanto si desume dal bilancio delle operazioni Usa di contro-terrorismo del 2017 fatto dal Long War Journal (LWJ), progetto della Foundation for Defense of Democracies nato per monitorare lo sforzo americano per sradicare i gruppi jihadisti sparsi per il mondo: dalla mai domata al Qa’ida, fondata dal defunto Osama bin Laden e oggi guidata dal suo ex numero 2 Ayman al-Zawahiri, alla minaccia dello Stato islamico emersa dalla polveriera siriana e impostasi come problema numero 1 delle democrazie occidentali con la fondazione del califfato, nel giugno 2014, e l’ondata di attacchi in Occidente culminata con gli attentati di Parigi del 13 novembre 2015 e di Bruxelles del 22 marzo 2016.

Dai tempi del presidente George W. Bush, la dottrina americana di contro-terrorismo è cambiata più volte. È iniziata in modo aggressivo e in grande stile con la guerra in Afghanistan dell’ottobre 2001 e l’attacco preventivo all’Iraq del marzo 2013. È proseguita durante l’amministrazione di Barack Obama, che ha tuttavia cercato di ridurre la sovraesposizione delle forze Usa, come dimostra l’affrettato ritiro delle truppe dall’Iraq. Ed è ripresa con rinnovata enfasi nell’era di Donald Trump, che ha sciolto le briglie volute dal suo predecessore, concedendo maggiore autonomia al Pentagono e modificando le regole d’ingaggio che, sotto Obama, richiedevano ai comandi di attendere la luce verde della Casa Bianca prima di effettuare strike che potessero mettere in pericolo i civili.

L’aprirsi del 2018 ha offerto al LWJ l’opportunità di effettuare un primo resoconto delle operazioni trumpiane di contro-terrorismo. Operazioni effettuate nelle aree che l’amministrazione Obama definiva “non di attive ostilità”, per distinguerle dalle zone di guerra in cui è impegnato l’esercito a stelle e strisce come Iraq, Siria e Afghanistan. Ne emerge una situazione quanto mai rovente: “gli Stati Uniti”, sottolinea il LWJ, ”hanno lanciato nel 2017 un numero record di airstrike in Yemen e Somalia, e ancor più importante hanno iniziato di nuovo a prendere di mira terroristi in Pakistan e Libia”. Dal numero e tipo degli strike, il LWJ desume che l’amministrazione Trump abbia adottato “una versione muscolare della strategia di controterrorismo di Obama”: sta cioè mantenendo la promessa, fatta in campagna elettorale, di affrontare con pugno duro, senza paura di sporcarsi le mani, la minaccia rappresentati dai gruppi del terrore.

Yemen, Somalia, Libia e Pakistan sono i quattro teatri in cui si concentra la “guerra dei droni” che divenne la cifra distintiva della dottrina Obama e che prosegue instancabilmente sotto Trump. Ma non è solo con gli UAV che gli americani danno la caccia ai jihadisti: quando necessario, vengono lanciate operazioni con truppe speciali stanziate in basi vicine al teatro interessato. L’era di The Donald è cominciata proprio con un rischioso intervento dei Navy Seals in Yemen che ha provocato la morte di un soldato ed è stata rivendicata dal nuovo presidente come un grande successo, nonostante la perdita e il clamore della stampa. Basta ricordare il famoso raid del 1 maggio 2011 ad Abbottabad, che portò alla morte di bin Laden, per sottolineare come questo tipo di interventi sia sempre stato tra le opzioni. La differenza tra il vecchio e il nuovo commander in chief sta nella maggior numero di rischi che l’amministrazione Trump è disposta a correre, inclusa la possibilità di causare vittime civili.

Lo dimostra l’intensificarsi delle campagne in Yemen e Somalia dove, come sottolinea il LWJ, “le operazioni rinforzate di contro-terrorismo dell’amministrazione Trump” si sono manifestate in modo più eclatante. In totale, sono stati 35 gli strike in Somalia e 120 in Yemen. Il numero di questi ultimi è stato superiore quelli effettuati globalmente nei quattro anni precedenti, mentre quelli in Somalia sono stati addirittura di più rispetto a quelli che si sono contati dall’inizio della precedente campagna aerea, cominciata nel 2007.

Il sensibile incremento degli strike in Somalia si spiega alla luce di due fattori: il venir meno degli scrupoli nel fare i conti con la vecchia minaccia dei qaedisti di Shabaab, e l’affacciarsi dello Stato islamico, che anche qui ha fatto radici. A marzo, l’amministrazione ha eliminato alcune restrizioni risalenti all’era Obama, dando seguito alle indicazioni del Pentagono e del Dipartimento di Stato che sottolineavano l’irrobustirsi del problema Shabaab. Nel 2016, in effetti, il gruppo ha conquistato nuove aree da cui ha preso ad attaccare l’esercito somalo e la forza multinazionale dell’Unione Africana. Nel novembre 2017, nel paese del Corno d’Africa è stato lanciato il primo strike contro lo Stato islamico, che ha guadagnato terreno soprattutto nella provincia autonoma del Puntland, dove per un certo periodo è giunto persino a controllare il porto di Qandala.

Identica la situazione in Yemen, dove si è intensificata l’attività contro i terroristi di AQAP, il ramo locale di al Qa’ida, ed è cominciata quella contro la locale presenza dello Stato islamico: il primo strike contro quest’ultimo è stato messo a segno nel mese di ottobre ed ha causato la morte di decine di terroristi.

Ma è in Pakistan che si può riscontrare una svolta non meno significativa dettata dall’agenda Trump. Qui infatti Obama aveva cessato pressoché del tutto le operazioni: una scelta derivante dall’annuncio, che il LWJ definisce mendace, dell’annichilimento di al Qa’ida, e dalla volontà di porre fine alla guerra in Afghanistan, di cui il Pakistan costituisce un’appendice e che rappresenta il più lungo impegno il militare nella storia americana, da cui Obama voleva smarcarsi anche per segnare le distanze rispetto a quella che appariva come una guerra del deprecato Bush. Trump, come sappiamo, ha invece deciso di riaccendere al massimo livello le ostilità, e lo ha fatto nel modo più clamoroso: testando a marzo la “madre di tutte le bombe” (MOAB) e rivelando ad agosto, con un discorso televisivo in prima serata, una nuova strategia che contempla, tra le altre cose, il dispiegamento di ulteriori forze.

Sono stati otto gli strike condotti da Trump in Pakistan nel 2017. Pochi rispetto ai 117 condotti da Obama quando le operazioni raggiunsero il picco nel 2011, ma sempre più del doppio rispetto a quelli fatti dallo stesso Obama nel suo ultimo anno di governo. Nel mirino dei droni Usa sono finite figure prominenti dell’insorgenza talebana e di al Qa’ida, come Abu Bakar Haqqani, Abdul Raheem e Qari Abdullah Subari.

Per quanto riguarda la Libia, il 2017 si conclude con 12 strike. Un nulla rispetto ai 497 dell’anno precedente. Ma allora era in corso l’operazione Odyssey Lighting, lanciata dall’amministrazione Obama a sostegno dello sforzo delle milizie libiche volto a scacciare lo Stato islamico dalla sua roccaforte di Sirte, e la Libia era inquadrata come zona di “attive ostilità”. Gli strike del 2017 sono invece classificabili esclusivamente come operazioni di contro-terrorismo.

Da questi dati, il LWJ trae la conclusione che “gli Stati Uniti continueranno questa rinvigorita campagna aerea in questi teatri” anche nel 2018. Data la resilienza della minaccia terroristica e il flusso dei foreign fighters che dalle roccaforti jihadiste in Siria ed Iraq stanno defluendo verso altri santuari del terrore, di cui Libia, Yemen, Somalia e Pakistan rappresentano casi eccellenti, possiamo immaginare che tale campagna si protrarrà per tutta la durata dell’amministrazione Trump, e oltre.


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