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I possibili danni del “caso” Bellomo

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Francesco Bellomo, il Consigliere di Stato e docente finito su giornali e televisioni per le note vicende legate alle presunte pressioni e violenze psicologiche sino allo stalkeraggio esercitate sulle borsiste nei suoi corsi di preparazione al concorso in magistratura, è innocente. È innocente perché, ci ricorda la Costituzione Italiana (art. 27), si è tali sino alla condanna definitiva. Il Consiglio di Stato, per il tramite dell’azione promossa dal suo Presidente, ha avviato la procedura di destituzione del magistrato, mentre almeno due Procure hanno aperto fascicoli per indagare ed appurare i fatti. Il tempo e gli eventuali processi diranno, naturalmente, cosa nel dettaglio sia davvero avvenuto e se si sia di fronte a molestie e a condotte penalmente rilevanti che, ove accertate, andranno sanzionate a norma di legge. Detto questo, Il polverone sollevato dalle rivelazioni di alcune giovani donne, aspiranti magistrate, circa i comportamenti di Bellomo, non può non far sorgere alcuni dubbi che, pure, col diritto penale nulla hanno a che fare. A leggere e a dar credito a quanto riportato su diversi giornali, il clima che si respirava all’interno della Scuola per futuri magistrati “Diritto e scienza” era a dir poco singolare, con la selezione di alcune borsiste che sarebbero state invitate ad adottare un codice di abbigliamento perlomeno discutibile, a non intrattenere rapporti con gli altri corsisti e, addirittura, a sottoporre ad una valutazione di natura superomistica i propri partner. Pur volendo accantonare le lamentate violenze di natura psicologica che si addebitano al magistrato, c’è da restare sbigottiti. In una lettera ai giornali, Bellomo sostiene, rompendo il silenzio, che un dress code è previsto sia per le donne che per gli uomini e che tale codice, “che è riconosciuto dai giuslavoristi come legittimo se liberamente accettato e coerente con le esigenze aziendali, trovava la sua ragion d’essere nel ruolo promozionale che il borsista svolgeva, certamente agevolato da un’immagine attraente (cosiddetto effetto alone)”. Effetto alone? Devo dire che, nella mia sostanziale ingenuità, mi ero fatto la strana idea che la funzione di amministrare la giustizia in nome del popolo fosse il difficile compito in cui si dovessero esercitare il sapere giuridico ed il buon senso, e che poco ci azzeccassero tacchi, gonne o attrattività dei togati. I quali, beninteso, sono donne e uomini come tutti e noi e, come tali, soggetti a vizi e difetti degli esseri umani: ma che l’effetto alone fosse elemento rilevante ai fini della decisione sulla innocenza o colpevolezza di un cittadino è cosa che giunge, francamente, nuova. Quindi, un magistrato eccentrico con un debole per il sesso femminile e che propugna l’idea di una “razza giudicante superiore”? Forse. Basterebbe, a tal proposito, leggere il suo cv, in cui Bellomo ricorda, a proposito di sé stesso, che “è accreditato alla WAIS (Wechsler Adult Intelligence Scale) di un Q.I. = 188 (media umana = 100) e al test delle matrici progressive di Raven di un punteggio ponderato pari a 201”. Oppure dare ascolto a chi racconta come nel corso delle sue lezioni sostenesse di essere 400 anni avanti allo sviluppo dell’uomo. E, tuttavia, la questione non finisce qui. In primo luogo perché la vicenda assume uno strabordante carattere sessista condito da un immaginario maschile pecoreccio che – poveri noi – si colloca a metà fra i film dei Fratelli Vanzina dei ruggenti anni ’80 e quelli più pruriginosi di Tinto Brass. Ma anche perché, a me sembra, getta un’ombra decisamente sinistra su (alcuni) futuri magistrati. Ci si potrebbe domandare perché si sia accettato di firmare un contratto che, oltre a prevedere minigonne e tacchi a spillo, pare costituisse un vero e proprio totalizzante addestramento di vita. O perché sottoporsi ad una sorta di lavaggio del cervello, quasi da setta consumata. O perché, se tutto questo venisse riscontrato come vero, nessuno dei corsisti, perfettamente al corrente delle vicende, abbia avuto nulla da eccepire. Sono domande che, ovviamente, si basano su fatti riportati dai giornali e, in quanto tali, tutti da dimostrare. Ma che riconducono, in ogni caso, al richiamo dei comportamenti del magistrato, al quale la nostra Carta garantisce l’imprescindibile “autonomia e indipendenza da ogni altro potere“ (art. 104), nonché alla necessaria tutela dell’ordine giudiziario e, di converso, di chi sia chiamato ad essere giudicato. Da questo punto di vista è certamente opportuno che venga fatta chiarezza nel più breve tempo possibile, magari (ri)aprendo, con l’occasione, una riflessione sulla utilità di sottoporre tutti coloro che aspirino ad esercitare pubbliche funzioni – nella magistratura come nelle amministrazioni pubbliche – a test di natura psicologica che ne accertino l’equilibrio e l’assennatezza indispensabili per le decisioni che verranno chiamati a prendere. Nella media umana, si intende.


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