Macron c’è. Ancora una volta. La Francia ha chiesto una riunione del Consiglio di sicurezza dell’Onu sui “rischi umanitari” che possono nascere dall’escalation in Siria dopo l’invasione turca. Il ministro degli Esteri francese Jean-Yves Le Drian ha detto che “la Francia è molto preoccupata della situazione in Siria e dal suo brutale peggioramento. Questo è il motivo per cui chiediamo la convocazione del Consiglio di Sicurezza, per valutare tutti i rischi umanitari, che sono molto seri”, ha detto il ministro a margine dei lavori di una riunione dei Paesi del Mediterraneo occidentale. Le Drian ha parlato questa mattina al telefono con il suo omologo turco. Il ministro francese ha chiesto di fermare i combattimenti e di consentire l’accesso per gli aiuti umanitari.
LA POSIZIONE DI ERDOGAN
Il presidente turco Recep Tayip Erdogan ha detto di auspicare in una rapida conclusione dell’incursione turca contro i curdi in Siria. Ha quindi promesso che non darà tregua ai terroristi, nel mirino dell’offensiva in corso dell’esercito turco contro la provincia di Afrin, enclave nel nord della Siria sotto il controllo dei curdi siriani del Pyd-Ypg. “State assistendo alla fuga dei terroristi, ma noi li inseguiremo”, ha affermato il capo di Stato, esprimendo poi l’augurio che l’operazione “venga portata a termine in fretta”. Intanto otto F16 turchi sono decollati dalla base di Diyarbakir, nel sud-est del Paese anatolico, e un primo villaggio nella zona siriana di Afrin è stato sottratto al Pyd-Ypg, passando sotto il controllo dei turchi e dell’Esercito siriano libero (Els). Quest’ultima formazione, sostenuta da Ankara, sta avanzando da est, mentre i “berretti bordeaux”, le truppe d’elite di Ankara, sono penetrate nella provincia di Afrin da nord. L’avanzata via terra è stata preceduta da intensi bombardamenti effettuati con artiglieria pesante a media e lunga gittata. Le operazioni militari si sono concentrate in sette diverse aree, in cui l’esercito turco ha annunciato di aver distrutto ieri 108 dei 113 obiettivi, mentre, sempre secondo il comando generale di Ankara, 153 sono le postazioni del Pyd-Ypg che l’esercito turco ha come obiettivo di distruggere oggi. Un intervento militare annunciato da tempo, per il quale tuttavia Ankara ha dovuto attendere il via libera di Mosca, che fino alla fine ha mantenuto un piccolo contingente militare nell’area proprio per evitare l’escalation. Ankara da parte sua ha ripetutamente rivendicato il proprio diritto a difendere il confine sud da un’organizzazione che ritiene terroristica, il Pyd-Ypg, della quale i turchi denunciano lo stretto legame con il Pkk, organizzazione separatista con cui la Turchia è in guerra dal 1984.
I manifestanti turchi che protesteranno contro l’offensiva di Ankara contro l’enclave curda di Afrin, nel nord della Siria, pagheranno un “alto prezzo”. È l’avvertimento lanciato dal presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, dopo che il Partito democratico dei popoli (Hdp) turco ha esortato la gente a scendere in strada a manifestare. “Alcuni rappresentanti dell’Hdp hanno esortato i miei cittadini curdi ad andare nelle piazze. Finora, non molte persone sono uscite”, ha sottolineato il leader turco, parlando da Bursa, nel nord-ovest del Paese. “Ma lasciatemi dire questo, non ci pensate nemmeno! Ci sarà un alto prezzo da pagare per coloro che risponderanno a questo appello”, ha assicurato Erdogan.
LA RISPOSTA DI ASSAD
Il presidente siriano, Bashar al-Assad, ha condannato l’offensiva turca contro l’enclave turca di Afrin, nel nord della Siria, sostenendo che rientra nel sostegno di Ankara ai gruppi estremisti. “La brutale aggressione turca della cittadina siriana di Afrin non può essere separata dalla politica promossa dal regime turco fin dal primo giorno della crisi siriana, che è stata essenzialmente costruita sul supporto al terrorismo e alle organizzazioni terroristiche”, ha affermato Assad. Ankara ha lanciato l’offensiva di terra “Ramoscello d’ulivo” contro le zone controllate dai curdi del Pyd-Ypg.
LA SITUAZIONE SUL CAMPO
Le forze turche e i loro alleati siriani hanno lanciato oggi un’offensiva transfrontaliera contro una milizia kurda per il secondo giorno, mentre il lancio di razzi dalla Siria ha colpito una città di confine in apparente rappresaglia. La Turchia ha lanciato l’operazione “Ramo d’ulivo” per cercare di estromettere dalla regione Afrin della Siria settentrionale le Unità di protezione dei popoli (YPG) che Ankara considera un gruppo terroristico. Ma la campagna rischia di accrescere ulteriormente le tensioni con l’alleato Nato della Turchia, gli Stati Uniti – che hanno sostenuto le YPG nella lotta contro i jihadisti dello Stato islamico – e ha anche bisogno almeno del tacito appoggio della Russia per avere successo. L’artiglieria turca ha bersagliato gli obiettivi YPG attorno ad Afrin oggi dopo i primi attacchi di ieri, quando 72 aerei turchi hanno colpito un totale di 108 bersagli all’interno della Siria, secondo l’esercito. Nel frattempo i ribelli siriani pro-Turchia che Ankara chiama Esercito Siriano Libero (FSA) sono stati coinvolti in un’operazione “globale” a terra su Afrin contro gli YPG, ha detto l’agenzia di stampa statale Andadolu.
LA FINE DI DAESH E LE MINORANZE
Con la liberazione di Raqqa e Deir Ezzor in Siria e Mosul in Iraq, il Califfato di Al Baghdadi sembra avvicinarsi alla sua fine. Ora le questioni più importanti sul tavolo geopolitico siro-iracheno sono due: il futuro assetto amministrativo dei due paesi e, sopratutto il destino delle decine di minoranze religiose che da centinaia di anni vivono in questa antichissima zona del mondo, una di quelle abitate da più tempo. Anche prima dell’avvento dell’Isis, le minoranze in Siria e in Iraq facevano non se la passavano sempre benissimo, e lo dimostrano gli alti tassi di emigrazione, dovuti in molti casi o ad una discriminazione più o meno istituzionalizzata o a restrizioni pratiche nell’accesso al mercato del lavoro. L’avvento dell’Isis non ha fatto che esacerbare la questione, fino a far registrare casi di tentato genocidio e di massacri su larga scala. Oggi che il Califfato sembra perlomeno ridimensionato, il futuro delle minoranze – scrive Yousif Kalian su Muftah – dipenderà in larga misura dall’assetto politico istituzionale dei due paesi devastati da anni di conflitto.
Un conflitto durante il quale, specie in Siria, gli attori sul campo hanno cercato di volta in volta di attirare la “lealtà” delle minoranze etno confessionali, che fossero i musulmani sciiti, gli Alawiti, i Cristiani o i Drusi. Sopratutto drusi e alawiti, negli ultimi anni, sono stati indotti dalle circostanze a rimanere saldamente dalla parte del regime siriano, vedendo alcune fazioni ribelli di matrice salafita come una minaccia esistenziale, in virtù del loro “takfirismo”, cioè l’atto di “scomunicare” qualcuno e condannarlo a morte. In molti casi queste comunità si sono ritrovate a scegliere tra due tipologie di oppressione: quella di lungo corso del regime, e quella – vistosa, macabra, millenaristica – dei gruppi estremisti di matrice qaedista, o dell’Isis. Dall’inizio della guerra, i Cristiani sono passati da 2 milioni di persone a 800.000. Esistono sul campo nove battaglioni di milizie cristiane, divise tra quelle afferenti all’orbita delle Syrian Democratic Forces (SDF) a maggioranza curda e a quella del regime siriano. Le SDF tendenzialmente si servono delle milizie cristiane per riprendere il controllo di aree miste, arabo-curde; Bashar al Assad li usa invece più come strumento di legittimazione, in aree a maggioranza cristiana. Entrambi i fronti si presentano nella retorica come i “protettori dei Cristiani”. Appare urgente che nel futuro della Siria venga preso in considerazione il suo storico assetto multi-identitario, l’eterogeneità del tuo tessuto demografico, ricostruendo anche i luoghi sacri distrutti dalla furia dell’Isis.