Si è svolto stamattina il lungo colloquio tra Papa Francesco e il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan, all’interno di un’area, quella vaticana, blindatissima e sorvegliata da decine di agenti (qui le foto dell’incontro). Tanti i temi sul tavolo, prima fra tutti la questione dello status di Gerusalemme, e subito dopo il Medio Oriente, le migrazioni, i cattolici in Turchia. Formiche.net ne ha parlato con Giacomo Galeazzi, vaticanista de La Stampa, scrittore, esperto di geopolitica vaticana.
In questo incontro ci sono in gioco questioni molto importanti, perché c’è il Medio Oriente, il rapporto con l’Occidente e gli Stati Uniti, e pure quello dell’Europa con parte dell’islam. Ma se guardiamo a Erdogan non si vede tracciato un gran bel profilo: gli arresti dopo il luglio 2016, la repressione dell’opposizione interna e della libertà di stampa, la questione dei curdi nel sud est e in Siria. Cosa gli ha detto Francesco?
Da 25 anni mi occupo di Vaticano e so che gli incontri imbarazzanti sono una nota ricorrente della pubblicistica sui pontefici. In realtà si tratta però una contraddizione, perché, da papa Leone Magno in poi, i pontefici incontrano chiunque. Nel senso che l’incontro non equivale a un avallo né tanto meno a una convergenza di posizioni con chi viene ricevuto. Ma soprattutto il ruolo peculiare di Francesco in questo momento storico lo equipara al ruolo che aveva la Ostpolitik durante la guerra fredda, in cui il pontefice polacco è stata la cerniera tra est e ovest.
Ora, invece, con Francesco?
Francesco la politica del dialogo la applica tra il nord e il sud del mondo, tra il mondo industrializzato e quello in via di sviluppo. Questo ha anche un riflesso interreligioso, perché fa di Francesco il punto di caduta anche di situazioni conflittuali su base regionale. Francesco ha riportato la geopolitica vaticana nello scacchiere internazionale dopo gli anni del ripiegamento sulle crisi interne, come pedofilia e scandali finanziario, ovvero la purificazione di Benedetto XVI, che si è concentrato più su questi. Per questo alla segreteria di Stato si è passati da un canonista come Bertone a un diplomatico come Parolin. Nel momento, poi, in cui la Santa Sede, e la geopolitica mondiale, devono fare i conti con il ritorno delle potenze regionali.
La terza guerra mondiale a pezzi.
E qui viene la Turchia. Non è più il mondo in cui tutto l’equilibrio della geopolitica mondiale si gioca tra est e ovest. Francesco deve negoziare con queste potenze regionali, sia per questioni religiose, ma anche per gettare ponti possibili per le crisi. È il metodo che lui applica, come nella preghiera di pace nei giardini vaticani tra israeliani e palestinesi. Ma lo ha fatto anche favorendo il disgelo tra Stati Uniti e Cuba, dove è stato il primo Papa della storia a incontrare il patriarca di Mosca Kirill. Per mostrare che laddove i cristiani tra loro riescono a superare le divisioni diventano un buon modello per gli Stati per superare le loro divisioni. C’è perciò un messaggio geopolitico ma anche uno pastorale-religioso: le due gambe si muovono insieme.
È la diplomazia della misericordia, che prevede il dialogo con tutti. Ma nel caso specifico, sappiamo anche che l’ultima visita di un presidente turco in Vaticano risale al ’59. Quindi, ancora una volta, una novità di Bergoglio.
Esatto, ed è la globalizzazione: contro l’indifferenza, la misericordia propone la globalizzazione della solidarietà. Io ho lavorato in Vaticano con il cardinale Silvestrini, uno dei protagonisti assieme a Casaroli della Ostpolitik: mi rimarrà sempre impressa l’immagine del primo viaggio di Giovanni Paolo II, da poco eletto nel ’79, in Turchia. Fu accolto con una grande freddezza. Senza contare che la storia assegnò un ruolo infausto alla Turchia, per via dell’attentato a Wojtyla di Ali Agca, il lupo grigio turco. Lo dico perché nel superare divisioni, difficoltà, anche incrostazioni storiche, Francesco sta veramente applicando una lezione del Concilio Vaticano II: lui parte da ciò che unisce piuttosto che da ciò che divide. Quindi anche con Erdogan, lungi dall’avallare le sue posizioni, e ricordiamo la faccia di Francesco nell’udienza con Trump: tiene sempre aperta la porta del dialogo. Sia che si parli di Cina, che di dialogo con l’islam, Francesco sa che la cosa peggiore che possa accadere è non avere interlocuzione, canali possibili di dialogo.
Perché si preclude a prescindere l’ipotesi di un successo.
Certamente. Durante la guerra fredda la Ostpolitik di Casaroli parlava con i regimi comunisti dell’est, molti, sia in Occidente che in Oriente, accusavano il Vaticano di mediare con chi contemporaneamente stava uccidendo la libertà religiosa e individuale. La stessa Chiesa era una Chiesa martire. Oggi le stesse rimostranze spesso vengono rivolte a Francesco, sia che incontri Erdogan sia che cerchi spazi di libertà religiosa in Cina. Il fatto è che i suoi non sono alcuni avalli, ma la realizzazione di quella politica del dialogo che è l’unica che ha consentito di tenere in vita la Chiesa durante la dominazione sovietica nell’est, e che quindi le ha fatto scavare sotto il muro di Berlino, contribuendo all’idea di Gorbačëv, che cioè “non si capisce la storia del ventesimo secolo senza Karol Wojtyla”. Politica che è stata vincente nella guerra fredda e che Francesco adesso applica a questo mondo multipolare, dove le potenze che prima stavano da una parte all’altra dello steccato adesso sono tornate influenti per la propria regione. Basta pensare all’intervento di Francesco per il disarmo nucleare tra le due Coree. È la lezione di Paolo VI che si presentò all’Onu come esperto di umanità.
Questo ci dice che, per esempio sulla questione specifica di Gerusalemme, o sulle questioni siriane, gli Stati Uniti hanno un ruolo importante ma non per forza centrale. Non c’è più cioè est e ovest, ma nord e sud del mondo, con in campo tante diverse potenze regionali.
Non è più l’epoca della guerra fredda. Prendiamo come riferimento la conferenza di Helsinki, alla quale la Santa Sede partecipò, ed ebbe un ruolo importante di mediazione. Lì era fondamentale essere un ponte tra due mondi contrapposti. Oggi di situazioni di crisi regionali ce ne sono tante, e quindi tanti interlocutori. Non è più est contro ovest, come vediamo nello status di Gerusalemme. La Santa Sede porta avanti tante partite diverse in cui la politica è quella del dialogo e della mediazione. Non basta mettersi d’accordo con Washington. Mentre quando scattò la legge marziale in Polonia l’asse Wojtyla-Reagan fu determinante: dopo la repressione di Solidarność in Polonia i satelliti americani portavano foto con accostamenti di truppe sovietiche in Vaticano. C’erano due mondi che si combattevano e un asse di bilanciamento. Oggi le situazioni cosiddette regionali chiedono un supplemento di impegno alla Santa Sede.
Se lo sguardo di Francesco sullo scacchiere internazionale è ampio, vale la stessa cosa anche per Erdogan? Il tema di Gerusalemme è stato quello che lo ha spinto qui. Subito dopo la dichiarazione di Trump il presidente turco ha preso il telefono e ha chiesto un incontro. E la questione del genocidio armeno in un secondo è stata archiviata. Quali sono i suoi obiettivi?
Lui è in cerca di un ruolo e di una legittimità, la mia impressione è che metta il cappello su tutte le questioni che lo configurano quasi come un Sultano. Lo fa anche in maniera grossier, approssimativa. Basta vedere che è intervenuto anche sui fatti di Macerata, parlando di un attacco ai musulmani ma non sapendo che molti di questi fuggono da Boko Haram. C’è un volersi accreditare agli occhi dell’opinione pubblica musulmana mondiale come il grande patrono dell’islam. Ruolo che le masse islamiche neanche gli riconoscono, e in questo è un po’ velleitario. È utile all’Europa per fermare la rotta balcanica dei migranti. Ed è un po’ un giano bifronte, come si è visto anche con la messa in scena del golpe: perché c’è una fragilità di fondo, come il suo essere nella Nato ma mai in procinto di entrare in Europa, e ricordiamo le dichiarazioni dell’allora cardinale Ratzinger, contrario al suo ingresso. Penso perciò che nel suo presentarsi come sostenitore delle cause islamiche ci sia tanto di propagandistico.
E il Papa?
Il Papa distingue i piani, e ragiona per dossier, come ad esempio quando il tema sono i migranti o Gerusalemme. Come diceva Stalin, il Papa non ha divisioni, mentre etimologicamente è un costruttore di ponti. E non può non farlo con una potenza regionale importante come la Turchia, che ha uno status naturale di porta d’Europa. Non entra nel tema dell’ingresso di un paese di 80 milioni di musulmani in Europa, e nemmeno nel piano della politica dei singoli paesi sino al punto da influenzarne le alleanze internazionali. Anzi rivendica un maggior ruolo delle organizzazioni multilaterali: lo ha fatto per l’Unione africana la settimana scorsa, e lo fa con le Nazioni Unite. Il Papa non si sostituisce a loro, ma rafforza il dialogo.
C’è una strada che indica.
Sì, e lo ha fatto anche con Putin: dopo l’Ucraina, nel momento del suo maggiore isolamento internazionale, lo ha ricevuto in Vaticano. Parolin qualche giorno prima ha spiegato che è fondamentale recuperare la Russia anche per le questioni medio-orientali, come quella siriana. O del Mediterraneo. E questo vale tanto per Putin tanto quanto per Erdogan.
Si direbbe un’azione di gestione delle crisi.
Esattamente, lui è per la risoluzione dei problemi. Non entra dentro le questioni di politica dei singoli Paesi, e neanche nelle negoziazioni, come tra Turchia e Europa. Lui, nelle crisi che emergono, favorisce il dialogo.