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Braccialetto Amazon: basta la parola?

Braccialetto elettronico: basta la parola, come per il confetto Falqui. Perché se il dispositivo di cui Amazon ha depositato il brevetto, che dunque oggi ancora non esiste, fosse stato presentato con un nome diverso, forse la tempesta politico-mediatica che imperversa da giorni non sarebbe nemmeno scoppiata. O magari sarebbe stata relegata a una breve in cronaca. Invece no, sono partiti tutti lancia in resta: ministri, sindacalisti, grillini, leghisti, liberugualisti, perfino il premier Gentiloni. E così, mentre da una parte all’altra dell’arco costituzionale – con qualche lodevole eccezione, certo – un Paese intero si spolmonava a denunciare le oscure trame delle multinazionali tech, pronte a rinchiudere i lavoratori in un universo concentrazionario che nemmeno la Kolyma di Varlam Salamov, ecco che dai social Matteo Salvini e Giorgia Meloni, ciascuno per proprio conto – ché a destra non si fa squadra nemmeno quando si tratta di far cagnara – annuncia: incontreremo i lavoratori. Exultate.

Il caso Amazon è lo specchio di una campagna elettorale da raccontare con le categorie della psicologia più che con quelle della politologia. Per esorcizzare la tentazione – seppure l’abbiano provata – di dire al riguardo qualcosa di sensato, i grillini, coadiuvati da alcuni tenori dell’estrema sinistra, si sono abbandonati al riflesso pavloviano di maledire il jobs act: se Amazon può permettersi di robottizzare i lavoratori con i suoi braccialetti – questa la tesi – la colpa è di Renzi e della sua riforma del lavoro. Peccato che non sia vero. Il controllo a distanza dei lavoratori, che peraltro non è fine che il brevetto di Amazon si prefigge, è escluso dallo Statuto dei Lavoratori in linea di principio e consentito solo nel caso si raggiunga un accordo con i sindacati. Il jobs act ha allargato questa possibilità, per esempio includendovi le esigenze produttive, la sicurezza del lavoro e la tutela del patrimonio aziendale, ma mantenendo il vincolo dell’intesa sindacale (sul punto si rimanda all’articolo di Emanuele Dagnino di Adapt.

Purtroppo quando si creano le condizioni dello psicodramma è inutile mettersi a obiettare in punto di fatto. Il braccialetto elettronico è un’entità puramente immaginaria, ma se a evocarlo – come in un sabba – si mette qualche stregone volenteroso con il supporto della rete, allora anche uno spettro può acquisire una sinistra consistenza. E sappiamo bene che di questi tempi gli incubi della gente sono popolati da tanti spettri, la maggioranza dei quali pericolosa più o meno come il braccialetto elettronico di Amazon, cioè zero.

Comunque, per non lasciare nulla di intentato, forse è opportuno avanzare qualche altra precisazione. Il braccialetto non serve a monitorare il comportamento dei dipendenti bensì a indirizzarne i movimenti tra uno scaffale e l’altro. Se il lavoratore trova prima la merce, se fatica di meno, se gli errori di consegna diminuiscono, la produttività inevitabilmente aumenta: non è un delitto, fino a prova contraria. Tanto più che in Italia dispositivi che svolgono funzioni analoghe sono già diffusi. A Cassino, dove Fca produce la Giulia e il Suv Stelvio, alcuni lavoratori indossano degli smartwatch integrati tra loro e collegati col Mes (Manufacturing execution system), il sistema informativo che gestisce l’intero sistema produttivo. Stessa cosa alla Lamborghini, nella felix Emilia dove la Fiom non si fa pregare per firmare gli accordi. La stessa Fiom che ha fatto fuoco e fiamme due anni fa quando Fincantieri propose di inserire un chip negli scarponi degli operai impegnati sui cantieri per meglio garantirne la sicurezza e soccorrerli in caso di incidente.

Anche sulla nozione di controllo a distanza è utile qualche distinguo. Il controllo va necessariamente considerato lo scopo ultimo delle innovazioni di processo adottate da un’azienda o non sarà per caso conseguenza indiretta di queste innovazioni, che invece hanno il fine di assicurare maggiore produttività e non di rado maggiore sicurezza?

L’accordo firmato con la società di Tlc Sirti, accordo che prevede la geolocalizzazione degli operatori chiamati a intervenire sulla rete, ha consentito ai sindacati di negoziare i guadagni di produttività connessi con la nuova organizzazione del lavoro. Eppure la geolocalizzazione implica di per sé una forma di controllo sui lavoratori…

I dispositivi “wearable”, cioé indossabili, non sono una novità nemmeno dal punto di vista normativo, se è vero che il piano Industria 4.0 li annovera tra quelli che possono beneficiare dell’iperammortamento al 250%, ovvero della più potente misura di stimolo all’innovazione digitale attualmente disponibile su piazza, una misura che ha giocato un ruolo fondamentale nel far ripartire gli investimenti nell’industria.

A voler guardare un po’ oltre le beghe da campagna elettorale, ci sarebbe poi da interrogarsi sui possibili sviluppi in altri campi di un brevetto come quello di Amazon. Pensiamo alle possibili applicazioni in campo sanitario, nelle terapie riabilitative o nell’aiuto a persone che soffrono di gravi patologie che ne limitano fortemente i movimenti e ne compromettono l’equilibrio. Poiché stiamo parlando solo di un brevetto non è detto che questi o altri sviluppi si verificheranno, ma non si vede perché si debba rinunciare a priori.

Quel che si evince dal dibattito sul “braccialetto elettronico” è che il nostro resta un Paese in cui qualsiasi discussione sul lavoro viene affrontata in una logica manichea. Da un lato una lettura della realtà incapace di vedere altro che non un attacco ai diritti acquisiti in ogni cambiamento. Dall’altro un approccio emotivo che degrada a chiacchiera da bar ogni tentativo di leggere le trasformazioni del lavoro attraverso il prisma dell’analisi teorica e fattuale. È quel che ha evidenziato in un bell’articolo su Linkiesta Francesco Luccisano. La cosa grave è che in questa rete – non da ora – è caduta buona parte della classe dirigente.

Una postilla. È evidente che su tutta la vicenda ha pesato e pesa la cattiva reputazione che Amazon – così come altre multinazionali tech – si è fatta in Italia ed Europa. Seppure non è da escludere che alcune delle inchieste giornalistiche che abbiamo visto e letto negli ultimi mesi siano venate di pregiudizio, è un fatto che la ritrosia dell’azienda ad affrontare il confronto con i sindacati e la propensione a cercare il rapporto one to one con i lavoratori non ha giovato alla sua immagine. Per non dire della disinvoltura con cui il colosso di Bezos – anche qui non da solo – ha fatto ricorso all’arbitraggio fiscale per accasare i suoi utili dove la tassazione è più mite (o quasi nulla). Un danno per tutti, anche per Amazon, che ora di certe scelte paga il contraccolpo.

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