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Embraco e le industrie italiane nella morsa internazionale

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La vicenda dell’azienda Embraco e dei suoi lavoratori si inserisce in una questione molto più ampia in cui noi italiani, soprattutto in ambito Ue, dobbiamo acquisire più autorevolezza se puntiamo a un’Europa che ritrovi lo slancio delle origini e sappia al contempo dare risposte moderne e convincenti alle attese dei suoi cittadini.

Noi italiani ed europei dobbiamo saper interloquire con le grandi potenze, ora rafforzando il nostro sistema di alleanze, ora intessendo partenariati di mutua convenienza superando l’idea di una politica estera come mera ancella delle ragioni dell’economia, ossia funzionale a garantire gli approvvigionamenti energetici e gli sbocchi alle nostre esportazioni. Globale, dunque, per visione e per vocazione non può che essere l’Italia nel “metodo” della sua proiezione internazionale. È impensabile difendere gli assetti strategici e il patrimonio industriale, scientifico e tecnologico, tutelare l’integrità delle reti e delle infrastrutture critiche, in altri termini salvaguardare quel nucleo duro di interessi nazionali che non può non essere promosso a meno di arrecare danno all’intera collettività se non rimanendo fortemente ancorati alla scelta atlantica, ricercando denominatori comuni solidi con i nostri partner europei.

Attenendoci a una accorta combinazione di fermezza e dialogo con quei grandi player che, pur non appartenendo al novero delle liberal-democrazie occidentali, possono comunque stabilire con noi convergenze specifiche su priorità condivise, oppure vanno compresi, e conseguentemente contenuti, nelle loro posture ostili sul terreno non convenzionale. La questione dell’azienda italiana è l’ultima di una lunga serie che stiamo perdendo e noi dobbiamo capire in fretta che si è delineato un nuovo Trattato franco-tedesco che confermerà l’asse fra le due capitali nella sua connotazione di perno intorno al quale ruoterà il futuro dell’Unione, di conseguenza, molto, per noi, dipenderà da come sapremo coltivare sul piano bilaterale i nostri rapporti con la Germania e con la Francia.

Soprattutto sul piano economico e occupazionale condividendo le stesse aree di manifattura industriale prima di tutto per potenziare il decision making al centro dei rapporti e per smorzare gli appetiti dei portatori di interessi periferici o settoriali. In materia di costo del lavoro e politiche occupazionali dunque l’asse si deve rafforzare: noi abbiamo un costo del lavoro enormemente più alto e un welfare massacrato dalla spesa pubblica che alimenta il debito, un apparato sindacale e imprenditoriale impreparato a raccogliere le grandi sfide.

Sapendo che tra la Francia e il nuovo governo di coalizione tedesco stanno maturando nuove sintonie, sui temi migratori e di governance dell’Eurozona, non necessariamente collimanti con i nostri desiderata e soprattutto con le nostre parziali capacità di avere una visione necessaria di cambiamento delle relazioni industriali e del mercato del lavoro. Per esempio è bene cambiare in fretta la nostra posizione sulla proposta di direttiva per il recepimento del Fiscal Compact, presentata il mese scorso, perché a parere di chi scrive, limitando le deroghe alle regole del six pack alle circostanze eccezionali, e alle sole riforme con un impatto positivo e diretto sui conti, a noi serve.

L’Europa continuerà a essere il nostro benchmark di riferimento, ma il suo sostegno e i suoi interventi perequativi saranno sempre più condizionati alla nostra capacità di meritarceli. Sappiamo quello che bisogna fare: riforme incisive per accrescere la produttività delle nostre imprese, la cui inadeguatezza è la radice di tutti i nostri mali; un assetto istituzionale piu moderno che riduca il cuneo fiscale e che favorisca l’efficacia dell’azione di governo; la promozione delle sinergie inter-istituzionali necessarie per fare sistema scardinando la resistenza delle strutture a mettere a fattor comune poteri, competenze e saperi; investimenti massicci e lungimiranti in ricerca, sviluppo, formazione e istruzione; ma pure un atteggiamento responsabile a Bruxelles, volto a dissolvere i sospetti sul fatto che vogliamo solo allontanare nel tempo la soluzione dei nostri squilibri di finanza pubblica, trincerandoci dietro l’avanzo primario.


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