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Per Erdogan la questione confini non è (ancora) risolta

Di AntonGiulio de'Robertis
turchia erdogan

L’offensiva di Erdogan contro le forze delle unità di difesa popolare curde (Ypg) che controllano l’area di Afrin, nella Siria nord-occidentale, è una brusca risposta alla mancata attenzione prestata dall’occidente alle sue obiezioni al progetto americano di affidare proprio all’Ypg il controllo della frontiera nord-occidentale siriana. Questo grave sviluppo si aggiunge a recenti passi dello stesso Erdogan, che già avevano destato le riserve delle cancellerie occidentali.

Nel corso della sua recente visita ad Atene, il presidente turco ha parlato esplicitamente della necessità di un “aggiornamento” del trattato di Losanna, esigenza da lui già manifestata in Turchia, dolendosi che il trattato del 1923 avesse attribuito alla Grecia alcune isole assai vicine alla costa anatolica. Ciò avveniva mentre si perfezionava l’accordo di Ankara con il Cremlino per la fornitura e il dispiegamento entro il 2020 dell’avanzatissimo sistema antimissile russo S-400, lasciando senza effetto le critiche dei responsabili miliari della Nato, che ne eccepivano l’incompatibilità con i sistemi d’arma dell’Alleanza.

Il proposito americano di questi giorni di costituire una sorta di guardia di frontiera nella Siria nord-occidentale a ridosso della Turchia con un contingente dell’Ypg destinato a raggiungere la consistenza di 30mila uomini provocava le rimostranze di Erdogan che definiva questa misura come assolutamente inaccettabile, in considerazione della sua convinzione che i miliziani dell’Ypg non fossero che terroristi. La richiesta di intervento della Nato contro queste misure otteneva una pilatesca dichiarazione di incompetenza per il teatro mediorientale, nel quale non vi era alcun impegno diretto.

Questi ultimi avvenimenti si pongono nel contesto della più ampia dinamica creatasi dopo la fine della Guerra fredda, con il rapido deteriorarsi degli assetti emersi dalla Prima guerra mondiale. Prima in Europa dove la Germania negli anni 90, immediatamente dopo la sua riunificazione, provocava la sovversione di tutta l’opera dei trattati di pace di Saint Germain en Lay e del Trianon, in nome del principio di autodeterminazione, che per quanto giusto, ha comportato il ritorno della guerra in Europa e il costo umano di migliaia di morti.

Analogamente, nel Medio Oriente la Turchia di Erdogan non si sente più legata agli assetti emersi dalla Prima guerra mondiale e all’osservanza delle penalizzazioni che quegli assetti comportavano per gli sconfitti imperi centrali e i loro alleati. Alla luce di quanto avvenuto in Europa negli anni 90, i turchi hanno incominciato a sentirsi in diritto di manifestare la propria insoddisfazione per gli assetti del trattato di Losanna del 1923. Quegli assetti sono però il risultato della riconquista della  totalità dell’Anatolia, operata da Mustafà Kemal, contro le forze di occupazione dell’Intesa. Sono perciò il lascito di colui che aveva ripristinato la dignità turca e che nel far ciò aveva modificato sostanzialmente il sistema politico del Paese, adeguandolo ai modelli occidentali. L’opera di colui che era considerato un padre della patria, ottenendo l’appellativo di Ataturk, è rimasta per decenni rispettata e indiscussa in tutto il sistema di comunicazione del Paese, facendo dell’occidentalizzazione e poi dell’ingresso in Europa un must del politically correct della Turchia del dopoguerra: un insieme di convinzioni fondamentalmente laiche dal cui discostarsi poteva comportare anche l’arresto, come è accaduto allo stesso Erdogan nel 1999 per la lettura in pubblico di alcuni versi di un poema di ispirazione nazionalista e religiosa.

Il successo elettorale del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp), fondato dallo stesso Erdogan nel 2001, evidenziava però il fatto che la maggioranza della società turca non era più totalmente devota ai valori che gli epigoni del kemalismo volevano intoccabili e indiscutibili. La revisione delle impostazioni fondamentali in materia di politica interna si è presto estesa anche alla politica estera con il primo manifestarsi di un neo-ottomanesimo, che pur non ottenendo grande successo nell’Asia centrale, rimaneva insofferente degli assetti mediorientali imposti dalle potenze dell’intesa nel 1923 pur dopo il successo della sollevazione di Mustafà Kemal.

Nell’aprirsi della crisi siriana, il governo di Erdogan ha visto l’opportunità di mettere in discussione le cessioni territoriali imposte dalle potenze dell’Intesa nel 1923. Infatti, non sono mancati nelle fasi di difficoltà di Assad accenni di ministri turchi e dello stesso Erdogan al recupero di Aleppo, Mosul e dei territori abitati dai “cugini” turcomanni. La formazione dell’Isis e la perdita del pieno controllo sulle forze anti Assad hanno obbligato gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali a ricorrere alle uniche forze disponibili in grado di contrastare l’Isis e cioè ai curdi dell’Ypg. Il successo di questi validi combattenti ha fatto sì che essi acquisissero il controllo delle vaste aree strappate all’Isis, alimentando le proprie aspirazioni alla creazione di quel Kurdistan, che pur era stato loro promesso a Sèvres nel 1920. Questa è però una prospettiva allarmante per Ankara, in considerazione dei dieci milioni di curdi stanziati entro le sue frontiere, e quindi l’allineamento a Russia e Iran, favorevoli al mantenimento dello status quo territoriale in Siria e in Iraq sotto regimi di loro fiducia.

(Articolo pubblicato sulla rivista Formiche)


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