Vittorio Sgarbi contro Luigi Di Maio. Dopo anni di attacchi a distanza, per il critico d’arte è arrivato il momento del fatidico faccia a faccia con il leader del Movimento 5 stelle. Un duello dal sapore dannunziano che si consumerà lontano dalle telecamere dei talk show, nelle urne elettorali. I due si scontreranno infatti nel collegio uninominale di Acerra e Pomigliano D’Arco, città natale del candidato premier pentastellato. In palio, una poltrona a Montecitorio.
Sgarbi, gioca fuori casa. È spaventato?
Ma figuriamoci se io posso avere timore di Di Maio.
Ammetterà però che sembra una scelta curiosa quella di candidarsi in provincia di Napoli…
Io mi sono sempre interessato alle bellezze di quei luoghi. Vittorio Imbriani, consigliere provinciale di Pomigliano d’Arco, è tra gli scrittori che più amo. Mi pare sia meglio ricordare un’intelligenza così positiva rispetto al nulla che il Movimento 5 stelle porta in quel territorio.
La cultura come ricetta per sconfiggere Di Maio?
Assolutamente. La mia sarà una battaglia per la bellezza, contro l’abbrutimento e l’ignoranza.
Ha chiesto lei di andare a Pomigliano?
No, è stata un’idea di Berlusconi. Mi hanno costretto a un patto federativo.
Costretto?
Potevo correre con Rinascimento Italiano, il movimento nato da una idea mia e di Giulio Tremonti, ma i colonnelli di Forza Italia mi hanno chiesto di candidarmi con Forza Italia. Avevano bisogno di gente di spessore e mi hanno fatto diventare uno dei pezzi di maggiore consistenza di quell’area, ma è stato un errore.
Perché un errore?
Berlusconi non mi ha ascoltato. È una questione di tecnicismi elettorali….
Che cosa gli aveva consigliato?
Questo sistema elettorale presuppone la potenza dello spacchettamento dei voti. In poche parole, conviene fare una coalizione con molte liste. Avevo proposto a Berlusconi di lasciare che il mio movimento, Rinascimento, si presentasse con una sua lista in coalizione con il centrodestra. Lui invece ha preferito un’alleanza con Zanetti e Cesa, che offrivano il simboletto democristiano. Fa bene Renzi, che mette insieme Lorenzin, Bonino e socialisti: anche se non arrivano al 4 per cento, i loro voti finiscono comunque dentro la coalizione e lo portano su.