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La rotta stretta della politica commerciale Usa

Da un paio di giorni, arrivano, da Washington, informazioni e corrispondenze secondo cui sarebbero imminenti dazi nei confronti delle importazioni di prodotti siderurgici negli Usa. Verrebbero mascherati come misure anti–dumping e specialmente nei confronti di produttori asiatici.

Queste notizie vanno inserite in un quadro più vasto. Il 30 gennaio, il Presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, ha pronunciato, il suo primo ‘messaggio sullo Stato dell’Unione’. Trump ha usato toni e parole molto istituzionali e molto concilianti, dopo un anno trascorso sempre all’attacco. “Questo è il nostro nuovo momento americano. Non c’è mai stato momento migliore per cominciare a vivere il sogno americano”. L’obiettivo palese è infondere fiducia agli americani, vantando gli “straordinari successi” del suo primo anno alla Casa Bianca e, al tempo stesso, lanciando un appello all’unità ed invitando i parlamentari democratici a lavorare insieme con l’Esecutivo nel resto del suo mandato. La “mano tesa” all’opposizione in seno al Congresso, dove sono necessari anche i voti dei democratici, gli serve per l’approvazione della riforma della normativa sull’immigrazione e soprattutto del programma per nuove infrastrutture da 1500 miliardi di dollari. Questo programma sta attirando anche grandi imprese italiane; questa settimana una delle maggiori aziende del settore ha lanciato un bando per assumere 50 giovani ingegneri per lavori infrastrutturali negli Usa.

Esaltando la sete di libertà, il coraggio, l’altruismo e la religiosità del popolo americano, Trump è rimasto fermo su molte delle proprie posizioni sui punti essenziale di politica interna ed internazionale. Nonostante alcune proteste organizzate a Washington e non solo, i sondaggi di opinione tenuti subito dopo il discorso, e pubblicati la mattina del 31 gennaio, rivelano che il ‘messaggio’ è stato apprezzato, in varia misura, dal 70% degli intervistati.

I temi della politica commerciale sono stati appena sfiorati in due brevi paragrafi: “L’era della resa economica (in materia di commercio con l’estero, ndr) è terminata. Da ora ci attendiamo relazioni commerciali eque e reciproche. Lavoreremo per aggiustare cattivi accordi commerciali del passato e per negoziarne nuovi”. L’aspetto più importante è l’annuncio che le misure commerciali saranno ‘negoziate’ non unilaterali come le restrizioni all’import di elettrodomestici e di pannelli solari (specialmente nei confronti dell’Asia) prese all’inizio dell’anno. Un atteggiamento differente da quello mostrato in campagna elettorale ma già manifestato nel discorso tenuto pochi giorni fa a Davos al Foro Economico Mondiale.

Cosa ha indotto al cambiamento almeno di tono? Da un lato, gli è stato fatto notare dai numerosi parlamentari repubblicani – un partito tradizionalmente più aperto alla liberalizzazione degli scambi di quanto non sia il democratico -, che le parole forti in tema di commercio, dazi e tariffe possono essere utili a trovare voti in Stati dell’Unione dove ci sono industrie poco competitive e alta disoccupazione, ma che da una guerra commerciale gli Usa rischiano di uscire perdenti. Non solo a ragione delle misure di ritorsione che applicherebbero altri Stati e che, nelle circostanze, verrebbero probabilmente approvate dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) nella sua funzione giurisdizionale, ma perché gli Usa rischiano l’isolamento in un mondo in cui la libertà degli scambi è vincente. Sono in corso 35 trattative o bilaterali o regionali per ridurre quel che resta dai dazi, liberalizzare le barriere non tariffarie agli scambi, eliminare gli ultimi contingenti quantitativi. Il mondo si muove anche senza di noi, ha scritto Phil Levy del Chicago Council on Global Affairs, repubblicano da sempre e a lungo consigliere di George W. Bush per la politica economica internazionale. Alla Casa Bianca si comincia a temere l’isolamento commerciale degli Stati Uniti, anche e soprattutto in quanto una parte importante della business community americana teme ripercussioni negative sui propri conti economici.

Il cambiamento di tono è tanto più importante dato che proprio alla vigilia del ‘messaggio’, un’analisi dell’Economic Policy Institute (EPI), il “pensatoio” di Washington supportato dalle maggiori organizzazioni sindacali – ha pubblicato un’analisi (Trump must act now to protect U.S. steel and aluminum workers) a firma del capo economista EPI Robert E. Scott. Lavoro chiaramente mirato ad indurre Trump a riprendere gli accenti tenuti in campagna elettorale.

I dazi od altre misure per l’import di prodotti siderurgici saranno molto probabilmente negoziati con i Paesi interessati e potranno prendere la forma di restrizioni ‘volontarie’ per due- tre anni analoghe a quelle che negli anni settanta l’Amministrazione Carter concluse anche con il Canada e l’Unione europea per lo ‘export’ di auto alla volta degli Usa. Ciò consentirebbe all’inquilino della Casa Bianca di mostrare di avere mantenuto le promesse fatte in campagna elettorale senza aprire però una guerra commerciale.


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