A breve il Consiglio di Sicurezza dell’Onu potrebbe pronunciarsi su una possibile tregua in Siria. Dopo sette anni di guerra, la situazione nel paese in guerra si è complicata ulteriormente: nelle ultime settimane si sono riaccesi numerosi fronti caldi, da Afrin nel nord del paese a Ghouta, vicino a Damasco, dove è in corso una violenta campagna di bombardamenti a opera del regime di Assad. L’obiettivo è quello di eliminare a ogni costo le ultime sacche di resistenza vicino alla capitale. Allo stesso tempo, la Turchia prosegue la sua operazione militare “Ramo d’ulivo” nel nord-ovest della Siria per contrastare le forze curde. Negli ultimi giorni, questa avanzata ha però portato l’esercito turco a scontrarsi con milizie filogovernative siriane, innescando una nuova escalation.
LA “SREBRENICA” DEL MEDIO ORIENTE: GHOUTA EST SOTTO ASSEDIO
Il 19 febbraio il regime siriano iniziato un assedio contro la zona di Ghouta Est nella periferia di Damasco, ultima enclave siriana controllata da forze ribelli. A oggi, secondo fonti Onu, sarebbero circa 350 i morti causati da questa operazione, che per la sua ferocia è stata paragonata agli attacchi su Aleppo del 2016.
Dall’inizio del conflitto Ghouta Est rappresenta una delle aree di strenua resistenza al regime: già nel 2013, nel tentativo di riconquistarla, il regime aveva attaccato quest’area con armi chimiche. Non è un caso che durante i negoziati di Astana del 2017 proprio questo sobborgo di Damasco sia stato designato per diventare una delle zone di de-escalation. Queste quattro zone (oltre a Ghouta ci sono Idlib, la provincia di Homs e le zone controllate dall’opposizione lungo il confine meridionale con Giordania e Israele) sarebbero dovute essere oggetto di un cessate il fuoco finalizzato a una risoluzione del conflitto. Un obiettivo difficilmente realizzabile data la molteplicità dei gruppi in conflitto tra loro. Questi scontri tra le fazioni ribelli hanno finito per giovare al regime di Assad, che ha contribuito a dividere il fronte nemico. Dopo avere concordato, con la mediazione russa e nel quadro proposto ad Astana, un cessate il fuoco con Jaysh al-Islam nel mese di ottobre 2017, Assad ha sferrato diversi attacchi alle zone di Ghouta e Jobar sotto controllo delle altre forze ribelli (Tahrir al-Sham e Faylaq al-Rahman). Poi nel mese di novembre, il regime ha totalmente bloccato ogni accesso a quest’area, isolandola e causando un’emergenza umanitaria di proporzioni enormi. I raid aerei degli ultimi giorni sono dunque l’atto finale dell’operazione volta a ristabilire il controllo governativo in questa roccaforte ribelle troppo vicina a Damasco.
Il Segretario Generale Onu Antonio Guterres ha richiesto con urgenza una sospensione delle operazioni belliche a Ghouta, definita ‘un inferno sulla terra’, invitando tutti gli attori a rispettare il diritto umanitario. Il Kuwait e la Svezia hanno presentato al Consiglio di Sicurezza Onu una bozza di risoluzione volta a sospendere l’assedio di Ghouta per un minimo di trenta giorni, per permettere agli aiuti umanitari di raggiungere l’area ed evacuare i civili bisognosi di urgenti cure mediche. La Russia, dal canto suo, ha proposto una serie di modifiche al testo della risoluzione, facendo rinviare così la votazione in seno al Consiglio di Sicurezza.
INTANTO AD AFRIN: FACCIA A FACCIA ERDOGAN-ASSAD
In questi giorni le forze del regime – e, soprattutto, le milizie sciite legate allo stesso – sono impegnate anche nella regione nordorientale di Afrin, dove la Turchia, affiancata dalle forze della Free Syrian Army (Fsa), dal 20 gennaio 2018 conduce l’operazione “Ramo d’ulivo” (Olive Branch), finalizzata a liberare l’area dalle milizie curde. Benché il regime siriano non abbia avallato l’operazione turca, sembra che questa sia stata favorita da una inusuale, e momentanea,convergenza di interessi tra Ankara, Damasco e Mosca. Tuttavia, la situazione è cambiata negli ultimi giorni, quando le forze affiliate al regime siriano si sono scontrate proprio con i turchi nei pressi di Afrin.
Come si spiega questo cambiamento? Sembra che contatti tra il regime e le Unità curde di protezione popolare (Ypg) fossero in corso da diverse settimane e che Assad abbia deciso di muovere in loro aiuto, come sostiene Annalisa Perteghella, per ripristinare il controllo e la sovranità del regime su quella parte di Siria. Infatti, spiega Alberto Negri, una sconfitta delle Ypg a Afrin potrebbe favorire una presenza duratura della Turchia sul territorio siriano, prospettiva chiaramente invisa a Damasco. Non è escluso, però, che Assad abbia accettato di sostenere le Ypg per avere una leva utile a ridimensionare le mire autonomiste curde nei territori da questi controllati nella fascia nord della Siria, all’incirca un quarto del territorio siriano, nella prospettiva di un futuro assetto territoriale.
RUSSIA, USA E IRAN: INTERESSI E RESPONSABILITÀ
Ogni mossa nello scacchiere siriano non può che implicare un coinvolgimento dei tre grandi attori esterni da sempre attivi su questo campo: la Russia, gli Stati Uniti e l’Iran. In particolar modo, va ricordato che Mosca e Teheran, insieme a Ankara, sono le tre potenze garanti dei colloqui di pace sulla Siria di Astana. Davanti alle violente operazioni governative su Ghouta, non sono mancati i richiami Onu volti a ricordare ai tre attori il loro fondamentale ruolo nel conflitto.
La Russia è attualmente tra due fuochi: da una la Turchia, che ha invaso la Siria il 20 gennaio scorso, e ha chiesto a Putin di non intervenire a favore delle forze governative siriane a Afrin; dall’altra Assad, a cui la Russia ha dato un indiscusso sostegno anche in quest’ultima azione a Ghouta. Se la strategia russa per la Siria non appare chiara, è indubbio che Mosca sia,come sostiene Joshua Landis, il principale ‘broker’ della regione, e che i futuri sviluppi in Medio Oriente non sembrano potere prescindere dall’azione della Russia.
Gli Stati Uniti, al pari della Russia, non si trovano in una situazione semplice. A dispetto della loro alleanza con le Ypg nel nord della Siria, gli Stati Uniti hanno lasciato mano libera alla Turchia (che rimane la seconda potenza militare della Nato) ad Afrin, il cui spazio aereo è sotto il controllo di Mosca. Tuttavia, non hanno intenzione di fare lo stesso a Manbij, indicata da Erdogan come il prossimo obiettivo. Questa città della Siria nord orientale, sottratta allo Stato Islamico dalla coalizione internazionale a guida americana nell’agosto 2016, si trova ora sotto controllo curdo ed è sede di una base americana. In risposta alle minacce di Erdogan, il Comandante dell’US Central Command Joseph Votel ha dichiarato che gli Stati Uniti non hanno intenzione di ritirare le proprie forze da Manbij. Se Ankara proseguisse dunque l’avanzata in questa direzione, le forze turche si troverebbero faccia a faccia con gli americani.
Più lineare risulta invece la posizione di Teheran, che rimane saldamente schierata a favore di Assad, per il quale il sostegno strategico e militare delle milizie filo-iraniane (in primis Hezbollah) è stato fondamentale nel corso del conflitto siriano. Per l’Iran, l’alleanza con Damasco è non solo un’imprescindibile base per la propria proiezione regionale,, ma anche – e soprattutto – un fondamentale fattore di deterrenza nei confronti di Israele, con cui la Siria condivide a ovest un confine conteso sulle alture del Golan.
(Articolo tratto dall’Ispi)