Dieci anni fa nel dibattito pubblico si è affacciata la questione delle competenze e del merito. Un contributo importante venne dal libro “Meritocrazia” di Roger Abravanel che segnò la partenza di un confronto tra intellettuali e commentatori sulle maggiori testate italiane. Il tema, in fondo, non era nuovo perché riprendeva il giudizio di sociologi come Banfield sul familismo amorale che avrebbe attraversato la storia italiana, distruggendo il riconoscimento del merito e impedendo lo sviluppo e la modernizzazione di questo nostro magnifico Paese.
Oggi il tema è tra i grandi assenti nella stanca, scalcagnata e ineluttabile campagna elettorale, insieme a quello del destino dei giovani italiani. Che strano: in un Paese assai generoso con tutte le celebrazioni a cifra tonda, il cinquantennale del ‘68 non ricorda che l’unica vera rivoluzione di quegli anni fu il protagonismo giovanile, il passaggio delle nuove generazioni dal ruolo di oggetto di consumo a quello di soggetto politico. Ovviamente oggi scomparso.
Ma torniamo al merito: spesso dimentichiamo, quando chiamiamo in causa l’art.54 della Costituzione, che, ponendo in capo al pubblico ufficiale (funzionario o eletto al ruolo di rappresentanza) il dovere di servire lo Stato con “disciplina ed onore”, la norma richiama implicitamente i concetti di competenza e di merito.
E c’è una cosa che sorprende ancora di più: la mancanza di attenzione alla questione del merito e delle competenze nella politica. La domanda, riducendo all’osso, è questa: ma come, si rivendica il “merito” in tutte le attività umane, lo si esige, giustamente, nel settore pubblico e poi, quando si tratta di rappresentanza politica, di persone che devono decidere del destino collettivo, ecco che ci si ferma sulla soglia e non si esige che gli eletti abbiano la competenza per adempiere adeguatamente alla funzione? È un po’ singolare, in effetti, che in un dibattito anche eccessivamente attento ad ogni battito d’ali della politica, questo tema venga eluso.
La rappresentanza politica dovrebbe essere la sintesi di tutte le competenze, anche oltre gli specifici talenti di cui ognuno, per attività di studio e profilo professionale, può essere portatore. Invece così non è. O non è più: si pensi solo che nel 1948, a fronte di un 90% di italiani privi di qualsiasi titolo di studio, il 91% dei parlamentari era laureato. Oggi, con una popolazione quasi totalmente alfabetizzata è fornita di qualche titolo scolastico nella misura del 90%, i laureati nel Parlamento della XVII legislatura sono il 68%. Quel che è peggio privi di qualsiasi esperienza formativa dal punto di vista delle scuole di partito, che non ci sono più. Chissà, fermarsi un attimo a pensare a questo, prima di dare il nostro voto, potrebbe apparire un esercizio utile.