La “valutazione globale delle minacce della comunità d’intelligence Usa” è uno dei documenti strategici governativi che traccia la mappa dei rischi che gli Stati Uniti corrono ogni anno sullo scenario globale per quanto riguarda la loro sicurezza e gli interessi nazionali. Quella rilasciata ieri da Daniel R. Coats, Director of National Intelligence dell’amministrazione di Donald Trump, non è diversa da quelle prodotte gli anni scorsi: contiene una prefazione introduttiva e poi, scheda per scheda, va a trattare quelle minacce, dalle armi di distruzione di massa ai cyberattacchi, su cui si concentra l’impegno quotidiano dell’apparato di sicurezza americano.
Una sezione particolarmente interessante del rapporto è quella delle “minacce regionali”. Suddivisa per continenti ed aree geografiche, la sinossi presenta gli elementi di preoccupazione provenienti da ogni quadrante con particolare riguardo all’impegno che Usa e alleati devono mettere in campo per tenerli a bada.
Pur non potendo consultare tutto il rapporto, prenderemo in considerazione i suoi elementi più interessanti, cominciando con la Cina, che sotto l’amministrazione Trump ha avuto l’onore di essere catalogata come “rivale strategico”. Il rapporto sottolinea che la Cina “continuerà a perseguire una politica estera attiva – specialmente nella regione dell’Asia Pacifico – evidenziata da una ferma posizione sulle rivendicazioni di sovranità sul Mar Cinese Orientale e il Mar cinese Meridionale, le sue relazioni con Taiwan e il suo sforzo di coinvolgimento economico di tutta la regione”. Come ha voluto dimostrare con il suo 19esimo congresso del Partito Comunista Cinese che ha incoronato per la seconda volta Xi Jinping, Pechino non ha più remore a definirsi una grande potenza con una visione geopolitica cristallizzata, cosa che preoccupa non poco, oltre che gli Stati Uniti per la rivalità nel controllo della regione pacifica, anche i paesi vicini come le Filippine o il Vietnam per le controversie sul controllo degli atolli e delle controverse isole artificiali costruite dalla Cina sul Mar Cinese Orientale e su quello Meridionale. La preoccupazione per i comportamenti cinesi sui suoi mari si aggiunge alle tensioni create con la vicina e irrequieta Corea del Nord per definire uno specifico profilo di rischio cinese.
Pyongyang meritava ovviamente un’attenzione speciale. “Il programma di armi di distruzione di massa” della Corea del Nord, “le minacce pubbliche, la sfida alla comunità internazionale, l’atteggiamento di sfida da parte dell’esercito, attività cyber e il potenziale per stabilità interna pongono una complessa e crescente minaccia alla sicurezza nazionale degli Usa e ai suoi interessi”. Il comportamento tenuto dalla leadership del Paese negli ultimi due anni, con continui test missilistici e due nucleari, e un chiaro atteggiamento di sfida nei confronti degli Stati Uniti e della comunità internazionale, lasciano intendere che la situazione si surriscalderà ulteriormente nel 2018. Non solo perché Kim Jong-un continua a perfezionare il suo arsenale convenzionale, indispensabile in vista di eventuali rappresaglie contro la Corea del Sud e il Giappone, ma perché nulla lascia intendere che l’obiettivo negoziale che la comunità internazionale si è data – la completa denuclearizzazione della penisola coreana – sia alla portata. Al contrario, l’impegno del regime “nel possedere armi nucleari e piazzare missili a lunga gittata, al tutto aggiungendo le ripetute dichiarazioni per cui le armi nucleari sono la base per la propria sicurezza”, fanno pensare che la crisi con la Corea è destinata a incancrenirsi.
Spostandoci sul quadrante Medio Oriente, la prima minaccia delineata dalla comunità d’intelligence Usa è quella dell’Iran. Che “cercherà di espandere la sua influenza in Iraq, Siria e Yemen, dove vede che i conflitti pendono in favore di Teheran, e sfrutterà la lotta contro l’Isis per solidificare le partnership e tradurre le sue vittorie in battaglia in accordi politici, di sicurezza ed economici”. La minaccia iraniana è quella che è stata descritta con maggior frequenza e intensità dal governo americano, per bocca di tutti i suoi esponenti, The Donald incluso. Il documento fotografa una situazione di rivalità su una varietà di fronti, a partire da quello siriano, dove il regime degli ayatollah ha avuto la meglio e intende godere di questa rendita di posizione per infastidire Israele e gli alleati regionali. Ribadendo recentemente che i suoi 2mila soldati rimarranno in Siria a tempo indeterminato, gli Stati Uniti hanno reso nota la propria indisponibilità a trasformare il Levante in una riserva di caccia del Guardiani della Rivoluzione e dei miliziani sciiti inquadrati da Teheran. Ma Il pericolo dell’ingerenza iraniana è forte anche in Libano, dove Hezbollah tiene tutti i gangli del potere, e in Iraq, dove alla vittoria governativa contro lo Stato islamico seguiranno elezioni nazionali in cui potrebbero avere la meglio partiti e fazioni pro-iraniane. Da segnalare anche la guerra in Yemen, in cui l’Iran è sospettato di avere un ruolo logistico e che contribuisce ad avvelenare le relazioni con la potenza rivale del Medio Oriente: l’Arabia Saudita. Non è un caso che nella prefazione, l’intelligence Usa pone una nuova guerra per procura tra Iran e Stati Uniti come possibilità concreta per questo 2018.
Visti anche gli impegni militari in corso, la Siria meritava un approfondimento a parte. Il rapporto sottolinea che gli equilibri del conflitto si sono spostati “decisivamente a favore del regime”, che grazie all’intervento russo del settembre 2015 e all’indefesso sostegno di Teheran e degli Hezbollah è oggi all’offensiva su tutti i fronti. L’opposizione è invece malconcia e l’intelligence Usa le da appena un anno di vita. Il 2018 sarà l’anno degli ultimi combattimenti con i ribelli e poi l’attenzione si sposterà sugli accordi di pace, che comporteranno notevoli complicazioni. L’intelligence Usa evidenzia che Putin non è nelle condizioni per fare pressioni sul presidente siriano Assad affinché acconsenta ad un accordo politico che indebolisca le sue posizioni di potere e offra vantaggi ai ribelli, ma è probabilmente in grado di esercitare pressioni affinché chiuda alcuni contenziosi. Il problema principale per l’America è che due alleati di Assad, Mosca e Teheran, pretendono dalla fine delle ostilità di conservare delle posizioni in Siria, la prima per la sua base navale e aerea e la seconda costruire installazioni con cui meglio coordinarsi con Hezbollah in funzione anti-Israele. L’ambizione ultima dell’Iran è quella di disporre di un corridoio sciita che gli permetta di muovere uomini, mezzi e armi da Teheran al Mediterraneo. Questa a ben vedere è la partita che si dovrà giocare nella fase post-conflitto e che dovrà accontentare attori dalle prospettive disparate: Israele, Arabia Saudita, Russia, Stati Uniti, Iran e Turchia.
Al centro dell’attenzione del rapporto c’è anche l’Afghanistan, come era giusto che fosse considerato il rinnovato impegno militare degli Stati Uniti nel tentativo di porre termine ai travagli del paese. Il rapporto prevede che “la situazione complessiva in Afghanistan probabilmente si deteriorerà modestamente di fronte alla persistente instabilità politica, attacchi sostenuti da parte degli insorgenti talebani, un’incostante performance delle Afghan National Security Forces e cronici disavanzi finanziari”. Fondamentale la scadenza del luglio 2018, quando gli afghani saranno chiamati a rinnovare il parlamento, e ancor di più quella del 2019, quando si dovrà scegliere un nuovo presidente. La sfida è di arrivare a questi appuntamenti conservando un brandello di sicurezza e allontanando il più possibile la prospettiva del collasso.
Visto che l’approccio di politica internazionale dell’amministrazione Trump pone grande enfasi sul rinnovato scontro tra le grandi potenze mondiali, un paragrafo a parte non poteva mancare per il paese che più di altri si è posto, in questo anno di amministrazione Trump, come il grande rivale: la Russia. Il rapporto sottolinea che Mosca cercherà la cooperazione di Washington in aree che possano far avanzare i suoi interessi. Contemporaneamente, però, farà ricorso ad una serie di tattiche aggressive per indebolire gli Usa e al tempo stesso rafforzare la sua immagine di grande potenza, per assicurarsi una “sfera di influenza” nello spazio post-sovietico e minare l’unità dello spazio transatlantico. Il rapporto prevede una competizione senza precedenti tra Russia e Stati Uniti in Europa ed in Eurasia, senza escludere di cooptare altre potenze rivali per mettere in imbarazzo l’America.
Pochi cenni, emblematicamente, vengono riservati all’Europa. Viene sottolineata la lotta dei governi nazionali per superare difficoltà interne come la crisi dei migranti o l’instabilità interna. Una certa enfasi viene posta sulla minaccia del terrorismo, considerata tutt’altro che tramontata specie alla luce del ritorno dei foreign fighters. E non poteva mancare un cenno alle paventate campagne “di influenza” con cui Mosca tenta di condizionare il dibattito pubblico ed elettorale delle democrazie occidentali.