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Phisikk du role. Astensionismo, parola ipnotica ma…

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Ma davvero dobbiamo aspettarci una fuga di massa dalle urne? A scorrere i dati dell’astensionismo nelle ultime tornate amministrative non c’è da trarre un grande auspicio per quel che potrebbe accadere tra quattro settimane: una media nazionale del 46% di votanti, con precipizi di partecipazione pari al 42% a Genova e Verona e addirittura al 35% a Taranto e Como. Né alle regionali siciliane è andata molto meglio: 46,7%, addirittura lo 0,7 in meno rispetto al picco, già negativo, del 2012. E non cambia il registro se prestiamo ascolto al “sentiment” popolare: la confisca del voto da parte dei capi-partito con l’uso disinvolto delle liste bloccate mette il cittadino di fronte al dannato dilemma del voto alla lista meno detestata. Un voto ideologico, dunque, che disincentiva l’interesse per chi viene chiamato a svolgere la funzione di rappresentanza.

Neppure il collegio uninominale può aiutare più di tanto, visto che non è previsto il voto disgiunto e, pertanto, il suffragio dato al candidato nell’uninominale va automaticamente alle liste bloccate del proporzionale. Per capirci: se io voto il candidato Bianchi perché lo reputo una brava persona ma non voglio votare il partito blu, a cui Bianchi è collegato, perché è agli antipodi rispetto al mio modo di vedere, sono costretto a bere l’amaro calice del sostenere il nemico. A meno che non scelga di votare per un candidato che non stimo altrettanto, pur di non tradire la mia ideologia.

Insomma: la legge sembra fatta apposta per tenere gli italiani lontani dalle urne. E c’è chi paventa un grave deficit di rappresentanza se la partecipazione dovesse restare sotto al 50%.

Ma andrà davvero così? Sono pronto a scommettere di no. Intanto per una ragione tutta italiana dell’abitudine al voto di massa nelle politiche diversamente da quel che avviene alle amministrative e alle europee.

Se andiamo, infatti, a dare un’occhiata alle statistiche della partecipazione al voto per le politiche dal ’46 ad oggi, ci renderemo conto che la performance degli elettori italiani, pur lontana dalla media del 93% degli anni ’50 e dell’85% degli anni ’90, è nel 2013 del 75, 25%, percentuale che la colloca ai vertici della partecipazione al voto in Europa e sopra a quella delle maggiori democrazie. Poi cè da considerare anche storicamente il voto alle politiche è stato più partecipato di quello delle amministrative o delle europee.

Negli anni di massimo splendore dei partiti di massa, come, ad esempio nei 70, mentre la partecipazione alle elezioni politiche raggiungeva il picco storico del 93,39% (1976), alle amministrative si raggiungevano a fatica cifre come il 70% e alle europee (1979) si toccava l85%. Percentuale stratosferica, questultima, se si pensa che alle elezioni per il rinnovo del parlamento di Bruxelles si è toccato nel 2014 il minimo storico del 57%. Né va trascurato un fatto: è cambiata la percezione del “dovere civico” rappresentato dal voto, secondo lart.48 della Costituzione. Se i nostri genitori e nonni collegavano la diserzione volontaria delle urne ad una sorta di disdoro sociale, una lettera scarlatta che avrebbe potuto danneggiarli nella vita professionale e civile, oggi questo atteggiamento non cè più: chi non va a votare, in fondo, sa di esercitare una possibile opzione tra quelle che la democrazia elettorale mette a disposizione.

Dunque se aggiungiamo anche questo segmento di cittadinanza che non si reca alle urne per scelta “politica” alla valutazione delle percentuali dei votanti e non, ci renderemo conto che lastensionismo italiano-meno del 15% nel 2013- può essere considerato entro i canoni della fisiologia democratica e non della patologia. Nonostante tutto i votanti non saranno troppo lontani da quel 75% del 2013.
Vogliamo scommettere?

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