Nel 2016 il quarto Paese al mondo per crescita del Pil, da anni al di sopra del 5 per cento. Una moderna classe media in espansione, “cuscinetto” tra i pochi ricchissimi (il 2-3 per cento) e i milioni di diseredati, quasi la metà della popolazione. Grande impulso alle infrastrutture.
La capitale Nairobi, una megalopoli di sei milioni di abitanti, calamita del business internazionale e polo d’attrazione degli investimenti stranieri – cinesi e occidentali – sospinti dalla presenza di manodopera qualificata e dalle agevolazioni fiscali. Il Kenya ormai Stato-guida, porta obbligata dell’intera Africa orientale. E strategico argine contro il terrorismo jihadista, minaccioso ai confini con Sudan e Somalia. Una prospettiva di sicuro progresso, l’arretratezza gradualmente alle spalle. Sembrava.
Tutto questo, dopo oltre un anno di ininterrotta campagna elettorale – costellata da infinite violenze e tensioni – rischia drammaticamente di sgretolarsi. La giovane democrazia kenyota, non ancora pienamente matura, vacilla sotto i colpi di un’aspra lotta politica, polarizzata tra due fazioni inter-tribali – immobili in un reciproco, atavico, odio – e alimentata da una corruzione dura da sradicare. Dopo due contestate, poco limpide, elezioni – la prima, in agosto, clamorosamente annullata dalla Corte Suprema, mai accaduto prima in uno Stato africano; la seconda, in ottobre, disertata e boicottata dall’ opposizione, ma convalidata, Uhuru Kenyatta, 53 anni, confermato presidente – il Paese è ostaggio dell’incertezza e del caos, la guerra civile in agguato.
Perché l’ultrasettantenne Raila Odinga, eterno candidato allo scranno più alto della Repubblica e regolarmente sconfitto, storico rivale della famiglia Kenyatta (prima del padre Yomo, artefice della guerra di liberazione dai colonialisti britannici, poi del figlio Uhuru) non si rassegna e chiama i suoi alla Resistenza contro l'”usurpatore”. Fino a optare – dopo il fallimento di uno stentato avvio di trattativa sottobanco con il legittimo vincitore – per una teatrale e spericolata prova di forza, sfidando i reiterati appelli degli alleati europei e africani, degli Usa, della Chiesa: la tragicommedia della cerimonia “alternativa” di insediamento alla presidenza.
Giuramento sulla Bibbia e incendiari inviti alla disobbedienza civile e al boicottaggio delle imprese legate all’establishment. Due presidenti per una sola nazione. Un’assurda farsa che tiene il Kenya – e mezzo mondo – col fiato sospeso.
La gente è stanca e sfiduciata, l’economia e l’occupazione arretrano. La spregiudicatezza del “tribuno del popolo” Odinga chiama la repressione dell’allarmato Kenyatta, incerto se procedere alla sua incriminazione – e all’arresto – per “alto tradimento”. Consapevole che la scintilla della rivolta potrebbe innescarsi. Con conseguenze devastanti.