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Trump è un sintomo: il liberalismo si è corroso dall’interno. Parola di Giuliano Ferrara

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Doveva essere una discussione geopolitica su Donald Trump, mentre invece è finita a citazioni di Joseph Ratzinger e san Tommaso d’Aquino, la presentazione del libro del giornalista de Il Foglio Mattia Ferraresi, “Il secolo greve” (Marsilio), che si è svolta lunedì 26 febbraio sul palco del teatro Piccolo Eliseo, a Roma.

Il tema di dibattito è lo stato attuale della democrazia e il corso storico del liberalismo, entrambi elementi che a un primo sguardo non sembrano passarsela troppo bene. Per via di diversi dati politici, come la vittoria di Trump negli Stati Uniti, patria e simbolo del liberalismo moderno e occidentale, oscillante tra chi la vede come esito sibillino e nefasto della democrazia e chi al contrario la interpreta come la sua più limpida espressione. O chi infine, più pragmaticamente, la legge come sbocco storico del percorso di tutto un mondo conservatore americano che fa capolino già dalla fine dell’Ottocento. Ma anche, e forse soprattutto, per via di quelli che sono i numeri della società statunitense: alto tasso di mortalità, diffusione della droga tra i giovani, problematiche del sistema scolastico, solitudine della classe operaia e decadenza della classe media, malessere profondo che viene sempre più percepito un po’ in tutte le aree del Paese, e quindi un impoverimento complessivo della società americana. All’origine, tesi comunemente accreditata e ripresa anche nel corso del dibattito, della vittoria di Trump e di ciò che generalmente, e in maniera spesso semplicistica, viene chiamato populismo.

Presa per sommi capi infatti la teoria liberale di matrice rawlsiana, cioè del filosofo statunitense John Rawls, spiega che il liberalismo è una sorta di contenitore in cui dentro si può inserire di tutto, segnando dei confini tra ciò che è ammesso e tollerato, in una prospettiva di un accordo sociale e politico condiviso che riconosce il pluralismo e sul quale innestare un ragionamento sulla giustizia sociale, e ciò che invece non lo è. Ovvero una “cornice che si nutre di ciò che vi entra, che viene così messo alla prova, e che se vi corrisponde viene trattenuto, e vi si accresce, altrimenti viene espulso”, dettaglia il giornalista di Repubblica Daniele Bellasio. “Con delle conseguenze però che a volte possono anche essere negative, vedi nella storia recente le primavere arabe”. Anche se tuttavia, guardando al caso degli Stati Uniti, “ci sono talmente tanti pesi e contrappesi che hanno lasciato Trump fare poco, eccetto la riforma fiscale”. Oppure si può guardare al caso della Brexit, che, sempre per lo stesso funzionamento istituzionale, è “ostacolata nei fatti”. Mentre invece nel caso del Medio Oriente “vedo continuità con Obama, anche se quest’ultimo lo ammantava di un savoir faire internazionale nei summit migliori”, ha spiegato Bellasio.

I filoni argomentativi offerti dal libro di Ferraresi sono perciò di fatto due: uno di natura storico-politica, cioè la difficoltà del liberalismo ad affrontare i problemi della società, e quindi in un certo senso una sua esplicita condanna. Il secondo, che si collega direttamente al primo, ha una radice antropologico-culturale, che lo stesso Ferraresi svela essere la fonte principale che muove la sua riflessione, partendo tuttavia dai dati empirici della cronaca, e che è: qual è il senso dell’esistenza? E soprattutto, la modernità americana è capace di darvi una risposta? “Trump è un caso del sistema elettorale americano e dell’orrore della candidatura di Hillary Clinton: le uniche due ragioni”, è invece la replica del giornalista Massimo Teodori, che a una lettura indicante una svolta troppo radicale della storia americana non ci sta. “Non idealizziamo la vittoria di Trump come una trasformazione dell’America, il populismo di Washington è tale e quale a quello degli ultimi trent’anni dell’Ottocento, e non parliamo perciò di fine della storia americana”, incalza. “Trump non ha alcuno spessore storico culturale, ma coloro che gli hanno attribuito certi elementi e glieli hanno messi in bocca sapevano cosa andavano a suscitare nell’elettorato. Tutta la storia americana è piena di periodi di profondo malessere”.

Però l’argomento della crisi della modernità americana e della mancanza di certezze esistenziali, dell’autoreferenzialità dell’uomo che, auto-centrato, si “auto-deifica”, portando come sintomo collaterale quello di una solitudine radicale, resta comunque sul piatto. Tanto quanto l’idea degli indici di benessere che non contemplano la dimensione più strettamente umana ma soltanto quella economica. “Se si guarda bene, si scopre che non siamo proprio di fronte al Paese del sogno americano, perché molti sogni sono diventati incubi. Ci sono molti scontri, e sul piano della società, della cultura, del linguaggio, è un paese talvolta drammatico”, ha commentato il fondatore de Il Foglio Giuliano Ferrara. “La droga di cui si parla non è quella del sessantotto ma quella prescritta dai medici, che diventa associazione, e poi Big Pharma. Estirpare il dolore è il corredo di una ideologia che si è corrosa”. E in ciò Trump “è parte di una famiglia che c’è anche in Europa e in altre aree geografiche, persino nella Russia di Putin, nella sua nuova fisionomia post ‘89”. Ci sono infatti, oltre a tutto questo, anche la Brexit, la difficoltà di fare un governo in Germania, le affermazioni dei partiti più radicali. Ma c’è anche la fine della storia di Francis Fukuyama, che forse non era tale. E poi il “politicamente corretto” di Obama, e le letture troppo semplicistiche della realtà.

“Trump è un sintomo: il liberalismo si è corroso dall’interno. È il fondamento ciò che manca al liberalismo, in linea con Platone, Rawls, John Locke ma anche Ratzinger. Ma se su questo c’è accordo, qual è l’alternativa?”, ha chiesto Ferrara. “Il vuoto, la solitudine dell’uomo contemporaneo? Oppure riconosciamo che siamo la società di massa, dei massimi legami sociali e di interdipendenza, sempre connessa, delle cure mediche per tutti, dove la solitudine a volte è persino cercata?”. Cioè, di fatto la domanda è: “Manca un ritorno a Dio, a un livello trascendente dell’esistenza dove nello spazio pubblico siano presenti in modo evidente valori che non sono solo l’interesse individuale e la vecchia secolarizzazione?”. Però allo stesso modo ci si può chiedere: “Ma l’individualismo del mondo liberale non è religioso?” L’individualismo di cui parla Ferrara è cioè quello che nasce con gli eretici del Cinquecento, inteso come “religione e fede personale, giustificazione alla persona da parte di un Dio unico, con Lutero, Calvino, gli anabattisti, i pensatori dell’antitrinitarismo, gli unitariani, le sette, e infine gli inglesi, ovvero il nucleo forte di tutto ciò che fonda gli Stati Uniti d’America”.

Un Paese, continua Ferrara mentre gioca con i suoi tre cagnolini al guinzaglio, “senza un’ideologia ma con un sogno, che è anche un incubo, e che di fatto è un’insieme di congregazionalisti, di piccole religioni ereticali. Nixon era un quacchero: un pacifista fondamentalista che fece la diplomazia del ping-pong e che voleva mettere fine alla guerra del Vietnam, come dimostrano i Pentagon Papers del film di Spielberg. Ma il cosiddetto ‘io e le sue voglie’, di cui parlò Ratzinger, è una degenerazione post-moderna. Il liberalismo è anche Edmund Burke”. O meglio, la risposta conclusiva di Ferrara, come al solito integerrima ma a tratti anche sconfortata, è: “Non è vero che la società di massa non ha una religione. Ce l’ha, ma non vuole riconoscerla, e le viene sottratta da chi muove i meccanismi insani della laicità, il ciarpame anticlericale che è sottoprodotto della critica radicale operata dalla riforma protestante del Cinquecento. Purtroppo hanno conquistato anche un pezzo della Chiesa”. Tuttavia l’analisi di Ferraresi, su cui ruota tutta la discussione, è chiara: “Il protagonista della storia moderna è un certo tipo di uomo, di una condizione molto precisa, che si autodetermina e trova in sé stesso la capacità di produrre cambiamenti nel mondo. Ma che a è anche giudice di sé stesso, dei suoi pari, della legge che lui stesso amministra e governa e che è il governo stesso”.

È cioè, in definitiva, l’individuo moderno: “il self, l’uomo che conosciamo da più o meno 500 anni”. “A me sembra di vedere dai dati che questa concezione sia insoddisfacente”, è la chiosa di Ferraresi, “che questa idea venga messa in crisi e mostri segni di sconforto e di cedimento”. Tuttavia, parlando della concezione dell’uomo moderno si sta parlando in maniera implicita anche dello Stato-nazione, della globalizzazione, della laicità, della ricerca di Dio e delle concezioni limitate dell’uomo, e poi della fraternità, impossibile senza una paternità condivisa, messa in luce per vie traverse, o talvolta avverse, anche dall’affermazione di partiti centristi e ultra-moderni, come ad esempio in Francia con Macron. Ovvero “l’acqua in cui nuotiamo”, che “si è solidificata come orizzonte unico e occupa la tela della nostra condizione contemporanea”, afferma Ferraresi. “Il liberalismo ha vinto perché è un’ideologia che non si presenta come tale. Senza l’idea di cosa sia una vita buona”, un fatto che il giornalista sostiene di vedere “in maniera nitida in un momento di impazzimento del sistema”. “Uno stato influenzale che si manifesta nei modi confusi, vaghi, cialtroneschi che ci riempiono di inquietudine o magari ci fanno persino sorridere, come in piccole srl locali vanitose con aspirazione al dominio”.

E con infine “il tentativo di abbracciare qualcosa come il nazionalismo, che risponde alla domanda che il liberalismo non risponde”. Ma che “non può perché non ha gli strumenti”, nel momento in cui “incontra un limite: l’individuo è una cosa meravigliosa ma quello che è al centro della scena non concepisce altro al di fuori di sé. Non solo nel senso della trascendenza ma in nessun senso. Già Remi Brague ci spiega che l’Occidente verrà salvato solo da ciò che è fuori”.

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