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Israele, Golfo e Turchia. Tutti i dossier che aspettano Tillerson in Medio Oriente

È atterrato ieri in Egitto il volo che porterà il segretario di Stato americano Rex Tillerson in visita in cinque capitali chiave del Medio Oriente: oltre al Cairo, tappe previste a Kuwait City, Beirut, Amman, Ankara. Ed è polemica per la mancata aggiunta di Gerusalemme, occasione che sarebbe stata preziosa anche alla luce dell’incursione del drone iraniano avvenuta ieri che ha provocato uno scambio a fuoco tra l’aviazione israeliana e la contraerea siriana e l’abbattimento di un F-16 dello Stato Ebraico.

A Gerusalemme, d’altronde, i patti sono già chiari e un altro pour parler sarebbe stato pleonastico. L’intesa tra Donald Trump e il premier israeliano Benjamin Netanyahu è eccellente, la sintonia piena, resta da affinare quel piano di pace sulla Palestina che, a causa della mossa di dicembre di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele, ha perso un po’ di quel capitale politico di cui poteva beneficiare in un mondo arabo desideroso di mettere la parola fine ad un’annosa controversia.

In tutte le capitali che toccherà, Tillerson sarà sicuramente rampognato per la decisione di Trump di dicembre – Gerusalemme capitale – che ha agitato non poco il mondo diplomatico e le acque dell’opinione pubblica di questi paesi. Per parte sua, il segretario di Stato fornirà la rassicurazione che non si tratta di un gesto isolato e unilaterale ma parte di un piano onnicomprensivo che non mancherà di sorprendere gli attori della regione. Un piano che gode peraltro già del beneplacito del primo capo di Stato che Tillerson vedrà oggi, il generale Abdel Fattah al-Sisi, che appena la settimana scorsa aveva ricevuto al Cairo, trattando più o meno gli stessi temi, il vice-presidente americano Mike Pence.

Quella con il presidente egiziano appare più una tappa di rito: Sisi è nel pieno della campagna per la rielezione a Presidente della Repubblica, e ha bisogno di mostrare all’opinione pubblica di avere il pieno sostegno del suo alleato americano. Che c’è per interesse reciproco: agli Stati Uniti fa comodo la partnership israelo-egiziana nonché godere della mediazione dell’intelligence egiziana con il governo diviso palestinese, e all’Egitto tornano utili quel miliardo e rotti di aiuti militari di cui il paese beneficia dai tempi della pace con Israele. In agenda anche il terrorismo, altro caposaldo dell’intesa tra i due paesi: si parlerà dell’operazione che tre giorni fa l’Egitto ha lanciato contro militanti islamisti nella penisola del Sinai, nel Delta del Nilo e nel deserto occidentale. Non sarà fatto cenno, per accordo reciproco, al tema dei diritti umani, che non è il caso di sollevare a poco più di un mese da un’elezione così decisiva per il Medio Oriente.

Tillerson andrà poi in Kuwait, dove presenzierà a due conferenze: una della coalizione globale contro lo Stato islamico, l’altra sulla ricostruzione dell’Iraq. In ambedue le occasioni dovrò dare sfoggio del meglio delle sue doti diplomatiche. Non solo perché ha promesso di non sganciare un dollaro per iniziative di “nation-building”, in ossequio ai dettami del trumpiano “America first”. Ma perché entrambe le iniziative sono a rischio. Del 100 miliardi che il premier iracheno Abadi si attende di ricevere, ne sono stati promessi appena 55. Quanto alla coalizione globale, essa è al momento paralizzata dalla famosa crisi con il Qatar che ha praticamente azzerato le relazioni tra gli alleati storici della penisola. Arabia Saudita ed Emirati Uniti, principali attori di questi forum, scontano inoltre le difficoltà della guerra in Yemen, iniziativa costosa, infruttuosa al momento e che sta costando caro in termini di credibilità alle due petromonarchie.

Se tanto a Beirut e Amman le discussioni saranno dominate di nuovo dal tema di Gerusalemme capitale, qui l’interesse degli interlocutori è quanto mai concreto. In Giordania e Libano vivono milioni di rifugiati siriani, che pesano notevolmente sul bilancio dello stato in assenza di proporzionati aiuti internazionali. Naturale pertanto che la conversazione verterà sugli accordi di pace sulla Siria, che ultimamente appaiono in salita dopo i fallimenti di Ginevra e di Sochi di due e tre settimane fa.

L’ultimo appuntamento per Tillerson sarà anche quello più ostico: quello con Recep Tayyip Erdogan. Le relazioni tra Stati Uniti e Turchia sono caratterizzate da numerose microfratture e divergenze che hanno avvelenato i rapporti in questi ultimi mesi. Erdogan è inferocito con gli americani soprattutto per il sostegno che hanno assicurato ai curdi dell’YPG, che il presidente turco considera gemelli ideologici dei curdi del PKK, organizzazione terroristica per Turchia, Europa e Stati Uniti. È per questo che la settimana scorsa Erdogan ha lanciato l’operazione “Ramoscello d’ulivo” finalizzata a scacciare dal cantone di Afrin i militanti YPG. Per riuscire nell’impresa, Erdogan è disposto a tutto: anche ad invadere la vicina città di Manbij, dove stazionano gli americani. La settimana scorsa, eloquentemente, Erdogan aveva dichiarato: “Ci dicono, ‘Non andate a Manbij’, Non andremo a Manbij per dare quesi territori ai legittimi proprietari”. Per quanto concerne invece i rifornimenti di armi americane ai curdi che secondo i primi non saranno mai utilizzate per scopi diversi dalla lotta allo Stato islamico, Erdogan ha replicato: “Non aspettate che ci crediamo (…). Non ce la beviamo”.

Non sarà una passeggiata, dunque, quella di Tillerson. Ma per l’ex ceo di Exxon Mobil c’è l’occasione di rasserenare gli animi dopo le intemperanze di queste ultimi tempi, che tra la crisi con il Qatar, Gerusalemme e Afrin, hanno innalzato non poco la temperatura in questo quadrante.



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