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L’Egitto dice Sisi ma l’astensione è un segnale da non sottovalutare

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Trionfo doveva essere e trionfo è stato, ma macchiato da un’astensione tornata a livelli critici. La riconferma di Abdel Fattah Al Sisi alla presidenza dell’Egitto non è mai stata in discussione. I risultati preliminari del voto di questa settimana annunciati poco fa dal quotidiano statale Al Ahram parlano di un vero e proprio plebiscito: al capo dello Stato uscente è andato il 96,9 per cento delle preferenze, a fronte del magro 3,1 per cento raccolto dal rivale Moussa Mustafa Moussa, candidato del partito liberale Al Ghad. Il consenso nei confronti di Al Sisi è stato maggiore di quello previsto dagli exit poll degli scorsi giorni e si è confermato sulle stesse percentuali bulgare delle precedenti elezioni presidenziali, quelle del 2014. Ma il dato atteso dagli osservatori internazionali e dall’entourage del presidente egiziano era un altro: quello relativo all’affluenza, che supera di poco il 42 per cento. In pratica, solo 25 milioni di elettori su 60 milioni di aventi diritto si sono recati alle urne. Questo nonostante i numerosi appelli rivolti ai cittadini dalle autorità e dello stesso Al Sisi, e nonostante anche – ne ha parlato il Washington Post – somme di denaro promesse per trascinare gli elettori ai seggi.

Nel 2012, con l’Egitto appena reduce dalla rivoluzione che aveva deposto il presidente Hosni Mubarak, l’esponente dei Fratelli Musulmani Mohammed Morsi veniva eletto al secondo turno con un’affluenza del 52 per cento. Nel 2014, quando Al Sisi si presentava per la prima volta al voto dopo aver già reimposto l’autorità dei vertici militari sul paese, alle urne si recava il 47,4 per cento degli aventi diritto. I dati sull’affluenza dell’epoca Mubarak sono ancora lontani (le ultime presidenziali pre-rivoluzionarie, nel 2005, avevano portato al voto meno del 23 per cento del corpo elettorale), ma Al Sisi, pur protagonista di una vittoria roboante quanto scontata, non sembra aver centrato l’obiettivo di legittimare il processo democratico (all’interno quanto all’esterno) attraverso un’ampia partecipazione popolare. In assenza di una reale opposizione e di uno sfidante credibile – a proposito, Mustafa Moussa ha rilasciato stamane un’intervista al quotidiano Al Masry Al Youm nella quale si è detto soddisfatto per aver contribuito alla crescita democratica dell’Egitto – la mappa geografica del non voto dirà qualcosa in più su come si sta sviluppando un dissenso che da diversi anni non trova sfogo né in piazza, né all’interno delle istituzioni democratiche.

Nel frattempo, il primo leader straniero a congratularsi con Al Sisi per la vittoria è stato il presidente russo Vladimir Putin, che negli ultimi anni – complice il conflitto in Siria, che rischia di far perdere a Mosca il suo principale alleato nel Mediterraneo – ha dimostrato una crescente attenzione verso Il Cairo. “I risultati mostrano chiaramente il valore che ti attribuisce il tuo popolo, così come l’efficacia del tuo approccio per risolvere questioni sociali ed economiche urgenti e per rafforzare la stabilità del tuo paese”, si legge nel messaggio indirizzato dal capo del Cremlino al riconfermato presidente egiziano. In realtà, Al Sisi sembra oggi avere davanti a sé più o meno gli stessi problemi che aveva quattro anni fa, con un’economia fortemente dipendente dagli aiuti esteri, tensioni sociali irrisolte e fette di territorio fuori dal controllo dello Stato (in primis la penisola del Sinai). Non solo. I risultati del voto di questa settimana ci dicono le dinamiche politiche dell’Egitto di oggi finiscono per assomigliare sempre più a quelle dell’Egitto di Hosni Mubarak, quando un enorme segmento della popolazione era tagliato fuori dalla vita politica nazionale. Una maggioranza silenziosa le cui istanze, inascoltate, sono rimaste le stesse.

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