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Aldo Moro e quel sangue che ricade ancora sulla politica italiana. Parla Marco Damilano

Moro

Sono passati quarant’anni da quel 16 marzo 1978 in cui si verificò la tragedia di Aldo Moro, rapito da un nucleo delle Brigate Rosse in via Fani, in cui persero la vita i cinque agenti della sua scorta, e che portò dopo 55 giorni al ritrovamento del corpo senza vita del politico democristiano nel bagagliaio della Renault Rossa, a due passi dalle sedi dei due principali partiti che insieme avevano da poco dato vita al quarto governo Andreotti. Quel momento segnò uno spartiacque della storia politica italiana, di cui ancora oggi si sente il risuono.

In questi stessi giorni è uscito in libreria, per i tipi di Feltrinelli, il testo firmato dal direttore de L’Espresso Marco Damilano e intitolato “Un atomo di verità. Aldo Moro e la fine della politica in Italia”. Pagine in cui vengono ricostruite, con un racconto in prima persona, tutte le vicende, le sensazioni e le impressioni di quelle giornate dolorose, per arrivare però fino ai nostri giorni. E soprattutto passando attraverso i cambiamenti generati nella politica italiana a partire da quell’omicidio, all’interno delle vite dei partiti, e soprattutto nelle esistenze, nelle scelte e negli orizzonti di tutti gli italiani. In questa conversazione con Formiche.net l’autore ha ripercorso la genesi del libro e tutto quanto ha ancora oggi da dire alla classe politica.

Direttore, partiamo dall’inizio: chi era Aldo Moro e cosa ha significato il suo omicidio per la storia politica italiana?

Gli italiani lo ricordano soprattutto per la fine, per il suo sequestro e per il suo omicidio, mentre io credo che vada restituita la sua figura di uomo e di politico. Come politico è stato il massimo interprete di una lunga stagione in cui la politica rappresentava la società e cercava nelle ragioni della politica, che sono quelle del dialogo, e dell’inclusione, come si diceva all’epoca e come si dice ancora oggi, le ragioni dello stare insieme. Con la sua morte tragica l’Italia ha perso anche quel modo di fare politica, e gli si è sostituito un modo competitivo ma anche conflittuale. In cui con l’avversario non si parla per principio.

La frase di Moro che lei cita, “datemi un milione di voti e toglietemi un atomo di verità e io sarò perdente”, è molto eloquente. Che cosa comunica alla politica di oggi, e probabilmente non solo alla politica?

Che in politica si può avere un grandissimo consenso elettorale ma non avere un atomo di verità, che è una visione, un progetto di futuro e non solamente uno schiacciamento sul presente, sull’esistente. E quando non hai quella visione anche i voti e il consenso finiscono per essere inutili. Perché anche vincendo si può essere comunque perdenti. E credo che questa sia una lezione molto attuale, anche per l’oggi.

Che cioè si finisce per rimanere rinchiusi dentro logiche di palazzo e perdere il contatto con la realtà, come in fondo, negli ultimi anni, abbiamo sentito dire tante volte?

Sì, ma Moro era comunque un uomo di potere, che nel palazzo aveva vissuto per trent’anni, dalla fine del ’46 con il governo della costituente al momento del suo rapimento, nel 1978. Quindi non era facile fare allora una contrapposizione tra la società e il palazzo. Sapeva però che, come dice in un discorso del ’75, la politica deve ascoltare il “moto indipendente della società”. Se non riesce ad ascoltare questo moto, che non dipende dai partiti ma dalla società, e non riesce a dargli un’interpretazione, finisce per perdere.

Più che la sua posizione all’interno del palazzo c’era forse, allora, una differenza di sguardo. Cosa vedeva Moro nell’Italia di allora?

Sì, è così. Al momento del suo rapimento vedeva un Paese dalle strutture fragili e dalla passionalità intensa, dove ci sono grandi mobilitazioni e grande voglia di scontrarsi, ma dove tutto questo precipita in una struttura fragile, nelle istituzioni, nella collocazione internazionale dell’Italia, in particolare nella doppia frontiera tra nord e sud del Mediterraneo, e tra est e ovest nei due blocchi che si confrontavano all’epoca. Quindi l’idea che l’incontro di queste due dimensioni, la passionalità e la faziosità esasperata, con uno spirito di parte esasperato, con la fragilità delle strutture, provocassero un collasso del sistema. La sua preoccupazione era tenere unite queste due dimensioni. Dopo però si sono ancor più separate, le istituzioni sono diventate ancora più fragili, e la passionalità è diventata ancora più intensa. Fino a spiegare anche la crisi attuale.

Una passionalità negativa, distruttiva più che costruttiva…

Sì, anche se lui non ne dava un’accezione negativa. Diceva che era l’incontro di due dimensioni che non si fossero tenute in equilibrio avrebbero provocato una grave lacerazione.

Questa fragilità immagino che, in qualche modo, la rivede nella situazioni di oggi.

Quel discorso è molto attuale, quello del 28 febbraio 1978, perché in quel momento bisognava fare un governo tra due forze che avevano scritto insieme la costituzione ma che si ritenevano avversarie, quali la Dc e il Pci, perché inseriti in una collocazione internazionale che li obbligava a stare su due schieramenti opposti, l’Occidente e il blocco comunista dell’Unione Sovietica. Eppure anche in una situazione così complicata, e così diversa da quella di oggi, in cui non c’è nulla di tutto questo, la via che indicava Moro era quella del dialogo e di quella che lui chiamava la flessibilità. Non era il potere, che avrebbe salvato la democrazia. Flessibilità significava essere intransigente sui principi, ma sapendo che la politica è dialogo, ricerca di un punto comune, e non lo sbandierare da parte di ognuno dei suoi vessilli, perché quello è il contrario della politica.

Eppure alcuni richiami alle linee politiche di quella stagione, anche se vaghi, pare che si provi a metterli in gioco ancora oggi. Mi viene in mente l’immagine del rosario di Salvini o l’apertura di Scalfari ai Cinque Stelle. Sicuramente è tutto molto diverso, questo è evidente, ma se ci fosse qualcosa da imparare da quell’epoca, di cosa si tratterebbe?

Una classe dirigente che non sta soltanto a ripetere gli umori più profondi del proprio elettorato, come se fossero delle curve da stadio, ma che si faccia anche carico del destino comune di tutti, mettendo da parte le ragioni di schieramento e cercando un filo comune di tutti.

E qualche sbaglio da non ripetere?

Una certa aristocraticità di quella classe dirigente, un certo distacco anche intellettuale dall’elettorato, che si è visto dopo, quando con la scomparsa di una classe dirigente che era in grado di interpretarlo, quell’elettorato ha votato come se quei leader non ci fossero mai stati. Tanto per essere chiari, la Dc di Moro era una Dc che veniva dalla tradizione di De Gasperi ma che Moro aveva portato molto più avanti, che era un partito progressista e non conservatore, un partito di centro-sinistra che guardava verso sinistra, mentre il suo elettorato era in gran parte moderato-conservatore, di destra, soprattutto al sud. Moro conosceva questa situazione, la temeva, e aveva oppositività assoluta nei confronti della destra, ricambiata, e tuttavia va detto che quando lui è scomparso quell’elettorato si è poi ritrovato a destra. Segno che forse quella pedagogia che lui aveva messo in campo non aveva funzionato.

A livello personale, cosa ha significato Moro per lei e per la sua generazione?

La mia generazione ricorda soprattutto il giorno del 16 marzo, in cui io stesso per una casualità passavo sul luogo della strage, con il pullman per andare alle scuole elementari. Il giorno in cui, come scrivo anche nel libro, siamo diventati grandi. Il problema è che non è diventata adulta la nostra democrazia. Che ancora oggi ha un problema di maturità: è una democrazia molto fragile e instabile.

Soffermandoci sul caso Moro, la commissione guidata da Giuseppe Fioroni è arrivata ad alcune conclusioni, e su questo punto cita anche l’inchiesta di Simona Zecchi pubblicata su Formiche.net. Tuttavia sostiene che ci sono ancora alcuni passaggi incompleti e controversi. Quali sono?

La relazione ne elenca diversi, anche se il mio non è un libro sul caso Moro, perché al contrario io voglio strappare Moro dal caso Moro. Tuttavia i punti controversi sono tantissimi, e credo che vada interamente rivista la versione del memoriale del brigatista Valerio Morucci, che ha codificato e cristallizzato una versione che è di comodo e che le Brigate Rosse hanno costruito con una convergenza, consegnata a Cossiga negli anni ’80. Che è la versione alla quale poi si è voluto credere, e con questa i brigatisti hanno di fatto ottenuto la libertà, e persino in questi giorni li vediamo che si stanno di fatto mostrando in pubblico, quasi celebrando la loro azione del 16 marzo. Questo io lo vorrei veramente cancellare dal nostro dibattito. Loro sono stati i protagonisti negativi e non meritano neanche che gli si dia voce. Su questo sono molto netto, ed è stata una mia scelta precisa non dare loro voce nel libro.

L’immagine di liberare Moro dalla propria prigionia è davvero molto evocativa e significativa.

Dall’altra parte anche lo Stato voleva chiudere questa pagina molto dolorosa, uno Stato che si è fatto rapire il suo esponente più importante, con un massacro degli agenti di scorta. E non è riuscito a ritrovarlo per 55 giorni. Poi non è riuscito a ritrovare i due originali delle tre carte. Quindi c’era l’ansia di chiudere quella vicenda con una versione di comodo che stabilisse certo la vittoria dello Stato, ma anche la chiusura delle indagini. Io invece penso che quel caso non vada chiuso, e la relazione della Commissione Fioroni lascia molti punti aperti, in particolare il ruolo internazionale dei palestinesi, e degli israeliani. E c’è una vicenda che è molto significativa e che riguarda il condominio di via Massimi 91, a pochi passi dal luogo della strage, via Mario Fani, e in cui fonti della commissione dicono che ci sia stato lo scambio delle auto. Per cui Moro sarebbe quindi stato lì, e non in piazza Madonna del Cenacolo, poco distante da quel punto. Luogo in cui Moro venne trasportato da una macchina o da un furgone, per poi andare in via Montalcini. Ma la relazione ipotizza una versione anche più estrema, che Moro in realtà sia rimasto prigioniero lì, in via Massimi, in un palazzo dello Ior abitato da spie americane, cardinali di Curia, extraparlamentari e informatori libici. Insomma c’è parecchio di cui parlare, e tutto questo è scritto non nel libro di un dietrologo superficiale ma in un atto parlamentare che peraltro nessuno ha letto. E anche questo forse meriterebbe un’attenzione in più. Poi c’è la questione delle foto, di cui Formiche.net ha pubblicato quella di Giustino De Vuono, il cosiddetto legionario che forse era presente in via Mario Fani. Noi su L’Espresso abbiamo pubblicato le foto di un ‘ndranghetista in cui, anche lì, sembra riconoscersi qualcuno presente in via Mario Fani. Insomma è però una vicenda popolata anche da fantasmi, figure che tornano e che riemergono con tutte le perplessità che possono suscitare queste ricostruzioni. Di certo però, l’unica verità che si può mettere nero su bianco è che la verità finale non è stata chiarita, e che non è vero che è tutto chiaro, come vorrebbero farci credere gli uomini delle Brigate Rosse oggi.

Lei ha consultato molte delle carte personali di Moro, ha trovate alcune novità? Ce ne può anticipare qualcuna?

Ho trovato molte carte inedite, poi la ricostruzione della sua personalità, e anche di quanto nell’ultimo anno di vita Moro fosse preoccupato dalla condizione dell’ordine pubblico in Italia. Il ’77 fu un anno molto violento e drammatico, e sul suo tavolo piombano continuamente lettere dalla periferia della Democrazia Cristiana, ma anche documenti che fece il ministro Francesco Cossiga, informandolo su un punto molto delicato, la riforma dei servizi segreti che in quell’anno entra in vigore, proprio alla vigilia del rapimento, trovando i servizi di fatto molto scompaginati. Colpisce perciò la preoccupazione di quanto questo crescente stato di violenza fosse presente nelle carte di Moro e nelle sue conversazioni e nei suoi colloqui.

Per concludere, lei dice che Aldo Moro vada liberato da quella prigione. Si riferisce soltanto alla vicenda specifica, e al suo racconto storico, oppure ha più a che fare con i tempi in cui viviamo oggi, in cui assistiamo alla fine del novecento, alla caduta delle ideologie, e al bisogno di riaprire una fase nuova?

Va superata questa immagine ossessiva che ci consegnano le foto delle Brigate Rosse e della Renault rossa. E va liberato lui come vanno liberati tutti i personaggi di quell’epoca. Come Walter Tobagi che andrebbe liberato dall’immagine del giornalista assassinato, assieme a tutti quei personaggi di cui si può dire: liberiamoli da questa tragica fine che li ha condannati e li ha imprigionati in quella sola immagine. Riportiamoli in vita assieme alle loro parole, ai loro scritti, ai loro testi. E poi certo la seconda immagine è quella del novecento: ogni personaggio politico è figlio della sua epoca, e ogni grande personaggio politico ha sempre qualcosa da dire alle fasi successive. Io credo che Moro abbia molto da dire anche a questa fase. Certo lontana dalla sua vita, dalla sua epoca storica, ma che appunto come tutti i più grandi personaggi politici ha sempre qualcosa da dire anche a un’epoca diversa, almeno a livello di metodo, di stile e di modo di concepire la politica.

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