La democrazia parlamentare è un esercizio che richiede virtù molto diverse da quelle impiegate dalla campagna elettorale. Pazienza, dialogo ed umiltà sono le caratteristiche vincenti che possono consentire risultati positivi. Quando Luigi Di Maio si è intestato il compito di guidare il processo per la individuazione delle presidenze delle Camere in forma condivisa, sembrava capace di arrivare a dama.
La doverosa precisazione di un obiettivo istituzionale diverso da quello politico (eventuale maggioranza di governo) era, ed è, corretto. Peccato però che il leader del Movimento ha contraddetto se stesso. Mentre è del tutto comprensibile l’indicazione di non votare candidati sotto inchiesta o condannati, è davvero incomprensibile la ragione per cui non parlare con il capo (indiscusso) di un partito come Forza Italia.
Se il tema sono le Camere e non il governo, perché non dialogare anche con lui, trasparentemente? Nessuno ha ordinato a Di Maio di occuparsi dei vertici parlamentari. Assumersi l’onore senza l’onere è un errore che rivela la immaturità politica di chi crede di avere conquistato il Paese avendo la quota minoritaria più grande come partito. Il 32% – giova ricordarlo, a quanto pare – è un gran risultato ma gli altri fanno il 68%. Siamo alla scuola elementare.
Quali che saranno gli scenari dei prossimi giorni e mesi, questo veto al dialogo con Berlusconi resterà agli annali come un clamoroso autogol del Movimento.
Giocare la partita delle istituzioni ignorando le regole del gioco esclude la possibilità di vittoria. Almeno in modo fair. Il punto che sembra emergere è che Di Maio nel dilemma se forzare nel Movimento (e contro Grillo) o procedere nella marcia verso Palazzo Chigi abbia scelto la prima opzione.
L’amico Salvini ringrazia. Il Paese invece resta ostaggio di un Movimento che sembra mancare il suo appuntamento storico con la responsabilità di governo (che prevede di parlare con Berlusconi e tanto altro).