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Le dimissioni di Renzi e l’ipotesi di un ribaltone dem pro M5S

legge elettorale

Le dimissioni di Matteo Renzi aprono nuovi scenari dentro il Pd e per il dopo voto. La netta sconfitta non lasciava molte possibilità al segretario di tenere il timone del partito.

Ora si apre per i dem “una pagina nuova”, per dirla con Renzi, e il Pd (magari insieme a Liberi e Uguali) potrebbe invece essere interessato ad un appoggio esterno ad un governo Di Maio. Ipotesi che in ambienti grillini viene vista con favore e che potrebbe non essere sgradita nemmeno al Colle.

Certo i dem post-renziani dovrebbero passare sopra il corpo dell’ex segretario per stringere una alleanza con i pentastellati. È una ipotesi che Renzi, dando le dimissioni, ha escluso, ribadendo la scelta di restare all’opposizione, dicendo “no” a inciuci e a un reggente del partito. Ma tante altre strade non ci sono e questa potrebbe essere tra le più “potabili”. L’alternativa sarebbe un governo “populista e antieuropeista” M5S-Lega o un governo di scopo finalizzato al ritorno alle urne dopo l’ennesima e potenzialmente inutile legge elettorale.

Escludere il M5S da una ipotesi di governo sarebbe peraltro pericolosissimo. Già oggi, in zone non piccole del paese, il partito di Di Maio arriva alla maggioranza assoluta. Che effetto avrebbe sugli elettori quella che sarebbe vista come una congiura di Palazzo per escluderli?

I pentastellati, dati del Viminale alla mano, portano a casa un bottino di oltre il 32 per cento alla Camera e al Senato. Il Pd è invece sotto il 19 per cento a Montecitorio e poco sopra a Palazzo Madama. Poco, ma comunque sufficiente a dare stabilità ad un esecutivo M5s e governabilità al paese, se questa fosse la strada che i dem post-renziani sceglieranno.

Una scelta, va detto, coerente con i pronunciamenti e le rassicurazioni date da Paolo Gentiloni all’Europa anche negli ultimi giorni di campagna elettorale.

L’altra ipotesi che resta in campo è la tanto evocata alleanza di Salvini con i pentastellati. Ma su questa strada ci sono diversi ostacoli. Salvini, legittimamente, ritiene di dover occupare la poltrona di presidente del Consiglio. Lo stesso, altrettanto legittimamente, chiede Di Maio per se stesso. Una poltrona per due.

Lo schema di questa Terza Repubblica, proclamata dal candidato premier grillino, assomiglia fortemente a quello della Prima Repubblica, basato su un partito leader intorno al quale ruotavano le alleanze di governo. Con una differenza sostanziale quanto ostativa in termini di governabilità: il protagonismo dei leader e una conseguente incapacità di cedere quote di sovranità all’eventuale alleato.

Ieri sera Bruno Vespa ricordava giustamente che la Dc era in grado di cedere persino la presidenza del Consiglio ad alleati indispensabili per formare la maggioranza di governo. Lo fece non solo a favore di Craxi e del Psi (che aveva l’11%) ma persino per Spadolini, esponente di un partito – il Pri – che aveva solo il 3 per cento nelle urne.

Pensare ad uno schema simile, con Di Maio e Salvini, sembra al momento quasi fantascientifico. Ma non è questo il caso del Pd. Un partito che nasce dall’unione tra l’ex Pci e una parte della Dc e che ha nel suo dna storico la capacità di operare “sacrifici” tattici.

Oggi Berlusconi e Salvini si sono incontrati ad Arcore in un incontro definito “molto cordiale” e “positivo”, ma non si può escludere che la Lega possa evolvere le proprie posizioni rispetto alle prime dichiarazioni, ufficiali quanto tattiche, di fedeltà all’alleanza di centrodestra. Né che il M5S possa aprire più avanti ad alleanze vere, basate su condivisione di posti e responsabilità di governo e non solo di tesi programmatiche. Lo testimonia la veemenza con la quale Renato Brunetta nega la centralità del M5 nella partita di governo (con i pentastellati declassati – al pari del Pd – a eventuali interlocutori del centrodestra) come pure il comunicato di Forza Italia che ribadisce come l’incarico debba essere conferito alla coalizione vincente.

Ma è davvero troppo presto per dire o prevedere cosa succederà: siamo ai primi passi di una legislatura su cui gravano troppe incognite. Per arrivare ad un governo, o alla presa d’atto della sua impossibilità, manca ancora molto tempo. Fino alla elezione del presidente della Camera, vera cartina di tornasole per una futura maggioranza, la partita non si farà davvero seria. Ed allora starà a Mattarella tirare le somme e scegliere la strada politicamente e costituzionalmente più opportuna.

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