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Il foodtech è una rivoluzione, l’Italia deve prepararsi

Quanti treni dell’innovazione ha perso l’Italia nell’ultimo quarto di secolo? Vi è stato un tempo in cui il nostro Paese era leader nell’industria dei Pc, in quella dei semiconduttori, nelle telecomunicazioni, perno nello sviluppo di Internet (alla fine degli anni 90, la penetrazione Internet italiana era superiore a quella della maggioranza dei Paesi europei). Ma, se c’è una cosa che caratterizza la crescita esponenziale dell’innovazione nella contemporaneità, è proprio il suo carattere disruptive. Purtroppo, per l’Italia dell’ultimo quarto di secolo, il ruolo è stato prevalentemente quello di vittima della disruption tecnologica globale. Un’altra profonda rivoluzione tecnologica che si sta per abbattere sul pianeta è il foodtech.

Una tempesta perfetta. Mentre da un lato si assiste infatti a un mutamento strutturale delle componenti della domanda, sia sul piano delle abitudini di consumo sia dell’emergenza delle nuove classi medie nei Paesi a rapido tasso di sviluppo, dall’altro l’impatto ambientale delle prassi industriali, combinate con l’instabilità causata dai cambiamenti climatici, stanno introducendo un’enorme pressione sull’intero comparto industriale agrofood.

Basti solo pensare alle previsioni del World food program (Wfp) per i prossimi trent’anni. Entro il 2050, la produttività agricola del pianeta dovrà crescere di circa il 70% per far fronte alla domanda crescente di cibo. In tutto questo, l’Italia ha nuovamente l’opportunità di giocare un ruolo di vera leadership.Il nostro Paese non è solo uno dei maggiori produttori ed esportatori al mondo di generi alimentari. L’Italia è anche leader nella produzione di macchinari industriali e di consumo. Soprattutto, oggi, a livello globale, l’Italia è percepita come vero leader a livello della food experience. Là dove, in passato, la scuola francese guidava la formazione del gusto e dell’etichetta nelle élite mondiali (e, a ricasco, nelle classi medie), oggi il mondo vuole mangiare a là italienne.

Pochi lo sanno, ma il nostro Paese sta già giocando un ruolo estremamente rilevante anche nel foodtech. Le nostre start up operano già sul fronte più avanzato dell’agricoltura di precisione, delle nuove modalità di distribuzione, del proximity marketing, del riuso degli scarti alimentari, dell’intelligenza artificiale applicata all’allevamento, per no dei sistemi più avanzati di coltura idroponici e acquaponici. Un’azienda leader come Barilla ha lanciato il suo fondo specializzato di venture capital che opera su scala globale (un caso quasi unico non solo per il mondo food nazionale), mentre a Milano, ogni anno, si tiene Seeds&Chips, probabilmente il più importante evento di settore al mondo. Quando, poco meno di due anni fa, lanciammo l’acceleratore Startupbootcamp FoodTech, il primo acceleratore internazionale a operare in Italia, pochi pensavano che avremmo potuto giocare una partita di rilievo sul piano internazionale. In effetti, lo stato dell’innovazione in Italia, soprattutto dell’innovazione disruptive, è pressoché disperante.

Negli ultimi cinque anni, in termini di investimenti venture capital procapite, l’Italia è stata superata perfino da Portogallo, Romania, Grecia e Bulgaria (siamo ultimi in Ue). Eppure, in due anni, il nostro acceleratore ha ricevuto oltre 1.300 candidature da oltre 80 Paesi (5 continenti) e 18 start up sono state accelerate. Provengono da usa, Israele, Germania, Regno unito, Irlanda, Paesi Bassi, Spagna, ungheria, Indonesia, Vietnam, Brasile, Colombia e, ovviamente, Italia. Oggi, siamo riconosciuti come uno dei massimi acceleratori al mondo nel settore foodtech. La ragione di questo successo (e di tante altre straordinarie storie in Italia), sta proprio nella forza del settore agrofood nazionale.

È vero, manchiamo di quei grandi campioni nazionali che vediamo nelle altre grandi economie avanzate. Nessuna grande azienda italiana fattura più di 5 miliardi di euro, mentre i colossi globali fatturano dai 20 miliardi in su. Tuttavia, le nostre piccole e medie imprese, specie quelle che hanno saputo ristrutturarsi negli anni della grande crisi, dimostrano una capacità quasi unica nell’adozione di nuovi modelli tecnologici e nella loro applicazione su scala globale. Ed è questo il segreto, perché è proprio di questo che hanno bisogno le start up più innovative, cioè di un ecosistema dinamico capace di sperimentare e valorizzare rapidamente le nuove idee imprenditoriali.

In questo senso, con la sua enorme differenziazione industriale, l’Italia rappresenta una straordinaria piattaforma di validazione dell’innovazione foodtech. Insomma, l’Italia ha l’opportunità di cavalcare uno dei maggiori cicli dell’innovazione che caratterizzerà i prossimi decenni. Perderemo anche questo treno? In effetti, molti Paesi si stanno attrezzando rapidamente, a partire da Usa, Cina e Israele, per non lasciarsi scappare l’opportunità di innovare quello che, comunque, rimane il maggior settore produttivo del pianeta: l’agrofood. E, mentre gli investimenti globali nelle start up di questo settore viaggiano oltre i 5 miliardi di dollari all’anno, l’Italia ne fa circa appena l’uno per mille. Una cifra ridicola. Possiamo cogliere questa opportunità solo a patto di riconoscere che si tratta di una partita globale, che non si può giocare con lo spirito provinciale con cui si è fatta innovazione in Italia nell’ultimo quarto di secolo, e soprattutto rendendosi conto che occorre incrementare le risorse molto rapidamente per poter competere. O si investe, o si è fuori.

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