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Israele, identità e la diversità radicale

Di Giovanni Matteo Quer
Israele legge

Israele, la sua storia e la sua cultura, sono necessariamente considerati attraverso il conflitto con i palestinesi. Le disquisizioni sulla legittimità o meno dell’esistenza di Israele, sulla definizione di Stato ebraico e democratico, sull’istituzionalizzazione delle discriminazioni fanno parte di un approccio che mette in ombra la realtà sociale di Israele. D’altra parte si conosce Israele tecnologica, moderna e imprenditoriale. Di Israele si apprezza la letteratura, la musica, la danza e il cibo. Quanto si conosce la società israeliana? Quanto si comprende l’identità plurale?

L’interesse verso la società israeliana sta nella centralità dell’identità e nella sua definizione plurima, che si compone di diverse appartenenze linguistiche, nazionali, etniche, religiose e culturali. La prima divisione, e quella più conosciuta, è tra ebrei e arabi. Chi fa parte della maggioranza ebraica appartiene a gruppi culturali diversi, come gli ashkenaziti (ebrei del centro ed est Europa), i sefarditi (ebrei originari della Spagna), mizrahim (ebrei dei Paesi arabi) o etiopi. A questi gruppi si aggiungono i russi, immigrati in Israele dopo la caduta dell’Unione Sovietica, buona parte dei quali non sono considerati ebrei secondo il diritto ebraico. Chi fa parte della minoranza araba (un quarto della popolazione israeliana) appartiene a una pluralità di gruppi religiosi e culturali. La maggioranza musulmana (1,8 milioni di cittadini) si divide in arabi e beduini (350mila cittadini), che a loro volta appartengono a due grandi gruppi: i beduini del nord e quelli del Negev (il deserto del sud di Israele). Vi è poi la minoranza cristiana (169mila cittadini), che si compone di 12 denominazioni che perpetuano le tradizioni culturali delle Chiese cristiane di oriente. Infine i drusi (140mila cittadini), un gruppo religioso creatosi nell’XI secolo da uno scisma nell’Islam sciita ismailita in Egitto. A questi gruppi si aggiungono i circassi (circa 3mila), musulmani di religione, ma appartenenti a un gruppo linguistico ed etnico di origine caucasica e insediatisi nel Vicino Oriente dopo le guerre russo-turche del XIX secolo. Ancora, armeni (circa 4mila) e aramei fanno parte della minoranza cristiana, ma non sono arabi e mantengono l’appartenenza linguistica e culturale armena e aramaica.

Il rapporto tra lo Stato e le minoranze è complesso: al riconoscimento dell’autonomia culturale e alla rappresentanza si aggiunge il senso di appartenenza allo Stato e alle sue istituzioni. Nei primi anni dopo la nascita dello Stato di Israele, la minoranza araba era soggetta alla legge marziale. Tra gli anni ’50 e gli anni ’60, Israele ha adottato una serie di leggi che hanno riconosciuto l’autonomia culturale e religiosa dei vari gruppi, secondo il sistema ottomano del millet, per cui ogni comunità religiosa gestisce autonomamente le questioni comunitarie – sistema criticato oggi assieme al diritto dello Stato che spesso confligge con le tradizioni religiose, in particolare sul principio di eguaglianza tra uomini e donne.

Con gli anni ’80 e ’90, gli sviluppi politici nella regione, la minoranza araba ha iniziato un processo di definizione identitaria legata alla relazione con Israele, con il mondo islamico e con il conflitto. Arabi israeliani o palestinesi di cittadinanza israeliana? Arabi o cristiani? Israeliani arabi o arabi con passaporto israeliano? Alle varie appartenenze religiose si sommano poi le identità politiche che definiscono il rapporto con lo Stato. Jonathan Elkhoury, Lorena Khateeb e Muhammad Ka’biya fanno parte di un’organizzazione nata per difendere Israele principalmente nei campus universitari, Reservists on Duty, e il loro messaggio è che l’integrazione è la chiave del successo. “Il servizio militare è la via per l’integrazione: per tre anni presti servizio con persone di ogni estrazione culturale e sociale” sostiene Muhammad, che ha prestato servizio nell’aeronautica israeliana e vive nel villaggio Ka’biya, dal nome della sua tribù. I beduini si arruolano nell’esercito da volontari. “La mia famiglia ha un rapporto particolare con il popolo ebraico e con Israele. Nel 1936, durante la rivolta araba nella Palestina mandataria, le milizie arabe volevano assassinare Alexander Zeid, il capo della prima organizzazione di difesa ebraica “Hashomer”. Il mio bisnonno ha nascosto la sua famiglia e ha respinto gli attacchi, perché nella tradizione islamica e beduina non si possono uccidere donne né bambini. Da allora abbiamo un’alleanza con il popolo ebraico e con Israele”.

Il servizio civile è un’altra via per l’integrazione. “Nel 2012, i cristiani si sono resi conto che non potevano dare per scontata l’esistenza di Israele” dice Jonathan. “Con la Primavera Araba, i cristiani hanno capito che Israele è l’unico Paese che li difende, dove hanno pieni diritti, e che pertanto devono contribuire alla società in cui vivono”. Jonathan è di origine libanese. Arrivato in Israele nel 2001 come rifugiato, si è stabilito con la sua famiglia a Haifa. “Gli arabi non ci hanno accettati perché ci consideravano traditori, perché le nostre famiglie hanno collaborato con l’esercito israeliano nella difesa delle comunità cristiane sotto attacco dalle le organizzazioni terroristiche durante la guerra civile libanese”. Ora si sente israeliano, libanese e cristiano. Lorena anche ha fatto il servizio civile “perché nella mia comunità solo gli uomini possono fare l’esercito”. I drusi sono presenti in Libano, Siria e Israele. “Siamo fedeli all o Stato in cui viviamo e non ci sposiamo con persone di altri gruppi: siamo una piccola minoranza nel mondo, circa un milione, sposarci fuori dalla nostra comunità vorrebbe dire scomparire nel giro di pochi anni”. Per Lorena Israele è una terra di opportunità: “In Israele posso vivere liberamente la mia identità e come donna posso lavorare per migliorare lo status delle donne. Inoltre Israele è il primo Stato che ha riconosciuto i drusi come gruppo religioso indipendente”. In altri Paesi, dice Lorena, questo non è possibile. “Non è scontato per me essere qui. Nella mia comunità una donna non si può allontanare dalla famiglia. Ma la società in cui vivo mi permette di emanciparmi”. Non le piace essere definita una minoranza “leale”: “Siamo israeliani, viviamo con altri gruppi, siamo legati alla nostra terra e al nostro Paese”.

La voce delle minoranze integrate non è isolata. “Se ne sente parlare poco, perché i rappresentanti arabi in Parlamento sono più interessati al conflitto e difendere i palestinesi”, dice Muhammad. Non nascondono i problemi delle loro comunità e della loro società, ma la loro esperienza è che l’integrazione porta a un cambiamento. “Non puoi startene in disparte pretendere che le cose cambino e poi decidere se essere parte o meno della società che vuoi cambiare”, sostiene Jonathan. “La maggior parte dei giovani vuole integrarsi. Per esempio, i problemi con le comunità beduine del sud di Israele possono essere risolti, ma i rappresentati arabi ne fanno una questione politica. Vanno a visitare i villaggi beduini solo quando ci sono le manifestazioni anti-israeliane. I giovani sono pronti a vivere in città e in villaggi. Vogliono vivere uno stile di vita moderno, pur mantenendo le tradizioni”. Così la pensa anche Lorena, che lavora in un’organizzazione di sostegno alle famiglie: “Le tradizioni sono una parte fondamentale della nostra società e non devono essere abbandonate. Non sono incompatibili con l’eguaglianza tra uomini e donne. C’è un cambiamento da fare, e Israele lo permette”.

La centralità di Israele e della storia del sionismo nel dibattito sul Medio Oriente mette in ombra l’evoluzione del pluralismo della società israeliana. Il senso di appartenenza a uno Stato che si definisce ebraico non è semplice gratitudine. “Siamo impegnati in commissioni parlamentari e in organizzazioni per l’avanzamento dello status delle nostre comunità”, dice Jonathan; “se c’è qualcosa che non va, organizziamo manifestazioni, proteste, campagne sociali”, dice Muhammad. Non è solo un senso di orgoglio patriottico, ma anche di orgoglio culturale. “Non amiamo che le persone parlino in nostro nome e strumentalizzino le minoranze per avanzare un’agenda anti-israeliana, perché a noi non si interessano e di noi non conoscono nulla”. La volontà di cambiamento e appartenenza è la ragione di un duplice impegno: “In Israele difendiamo le nostre comunità; fuori Israele, difendiamo il nostro Paese”.


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