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La deriva della leadership personalistica

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L’uomo solo al comando é un bene per la politica?

La personalizzazione della politica, si sa, é una delle caratteristiche principali della seconda Repubblica. La figura del leader, del capo carismatico, ha man mano sostituito, impersonandola o meno, le ideologie alla base dei partiti e dei movimenti. Resta da chiedersi, però, quanto questo fenomeno abbia influito sull’agire politico e nel dibattito pubblico. É un bene o no? É un processo inevitabile? A quali conseguenze ha portato?

Già in epoca romana, con la crisi dell’istituto repubblicano, le antiche fazioni degli optimates aristocratici e dei populares cercarono sempre più di mettere in campo i loro campioni, figure singole in grado di avere ragione della controparte, finanche attraverso l’uso della forza, consci del proprio carisma e del potere acquisito. La guerra civile tra Caio Mario e Lucio Cornelio Silla non fu che una conseguenza di questo modus operandi.

E oggi?

Senza voler analizzare intrinsecamente la natura di questo processo, si potrebbe prendere in considerazione il fatto che la figura del leader é ormai funzionale e rappresentativa della politica italiana e non. Bettino Craxi, ad esempio, fu uno dei primi a sdoganare la sua figura al di là dell’aplomb istituzionale dovuto alla carica di Presidente del Consiglio. Erano ormai lontani i tempi in cui Aldo Moro andava in spiaggia con giacca e cravatta con istituzionale pudore. Nonostante ciò, Craxi rappresentava ancora un’istanza ideologica e storica del partito che guidava. É con Silvio Berlusconi, dunque a partire dalla seconda Repubblica, che l’equazione cambia. Il self-made man che “scende in campo” per il suo Paese a capo di un partito-azienda creato nel giro di due mesi, senza eccessiva attenzione ai riferimenti ideologici e culturali. Di contro, la sinistra italiana prima ne rise, forte della propria storia e tradizione. Poi, dopo la sconfitta del 1994, ne pianse, avviando di lì a poco quel processo centrifugo che ha portato alla sua frantumazione per poi giungere, dopo infinite ed eufemistiche vicissitudini, alla nascita del Partito Democratico, nella speranza di mettere insieme le grandi istanze  prima divise.

Il PD, appunto, simboleggia l’avvenuta trasformazione figlia della nuova politica: da insieme collegiale e pluralista a dominio quasi incontrastato di un segretario-capo, leader unico e autoreferenziale. Dopo le ultime elezioni, una metamorfosi mortale.

Questa tornata elettorale ha sancito, una volta per tutte, il cambiamento radicale. Ovunque, sui social, per strada, in ufficio si é sentito dire “voto Salvini” piuttosto che “voto Berlusconi” o “non voto Renzi”. Sempre più sentiamo dire “sono Renziano”, “Salviniano”, “D’alemiano” (questo forse più raramente). Pochi, se ci facciamo caso, hanno nominato i partiti nella vulgata corrente. Significa che le ideologie sono morte? Forse, o forse no.

Certo, ciò che ha animato i grandi partiti di massa fino agli anni 90 potrebbe risultare anacronistico, sebbene il “fare democristiano” o “l’atteggiamento comunista/fascista” siano ancora oggetto di richiamo come categorie non di pensiero ma di azione. Oggi, invece, si fa riferimento al leader, traslando la competizione politica anche – e soprattutto – nella sfera privata, nelle azioni quotidiane, nei percorsi di vita se non anche nella sfera familiare. Seguendo il leader si rischia di snaturare la motivazione politica, il credo ideologico. Si rischia, soprattutto, di passare dal sostegno alla tifoseria, diventando fedeli solo al proprio uomo della Provvidenza senza sviluppare una sensibile capacità di critica. Cosa rappresentano, dunque, questi capi? Sono ancora sorretti da una cultura politica della quale sono portatori?

Nella vecchia Democrazia cristiana, per fare un esempio, ogni corrente aveva a suo modo delle solide fondamenta politiche, proprie visioni e valori che declinavano all’ideale condiviso. I relativi capi altro non ne erano che rappresentanti, facilmente sostituibili una volta finito il percorso politico. Dopo tutto, l’uomo passa, il credo resta.

Oggi si ha come l’impressione che i nuovi protagonisti della politica siano affetti da una sorta (palesemente testé inventata) di sindrome di Gengis Khan: grandi conquistatori, trascinatori di folle (anche virtuali), bramosi di raggiungere il tanto agognato potere ai quali però, in caso di sconfitta o caduta, poco o nulla sopravviverà loro. Si tornerà alle spartizioni, ai litigi, al perseguimento dell’interesse personale (e personalistico). Colpo di grazia, le responsabilità del fallimento saranno addossate proprio al leader, magari addirittura negando o sminuendo il sostegno dato e si dimenticherà qualsivoglia azione positiva per ricordare solo quelle negative, in una specie di auto-assoluzione.

Sembrano lontani i tempi delle Idee.

Luca Tritto



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