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Ecco perché sulla Libia sbagliammo a seguire Sarkozy. Parla il generale Camporini

Mentre l’ex presidente francese viene rilasciato, la pesante accusa di finanziamenti illeciti dalla Libia getta una luce inquietante su una vicenda, quella dell’intervento del 2011, già oscura. Eppure attribuire quella scelta alla volontà di coprire attività illecite rischia di distogliere lo sguardo dalle dinamiche che furono alla base di quell’intervento e che hanno, ancora oggi, degli effetti sui rapporti tra Roma e Parigi. L’errore italiano fu di non riconoscere l’essenzialità del nostro Paese per quella missione, un elemento che ci avrebbe permesso di evitare le pesanti conseguenze che l’Italia continua a pagare. Parola del generale Vincenzo Camporini, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai) e già capo di Stato maggiore della Difesa fino a gennaio 2011, pochi mesi prima dell’intervento contro Gheddafi.

Generale, dopo il fermo di Sarkozy circola una tesi che vede la ragione di quell’intervento militare nel tentativo di nascondere eventuali finanziamenti illeciti. Non le sembra una visione piuttosto semplicistica?

È evidente che la vicenda libica abbia altre radici rispetto alla questione dei presunti finanziamenti illegali su cui non abbiamo ancora elementi per capire se sia fondata o meno. Una delle interpretazioni dominanti vede una Francia allora impegnata a recuperare quello che aveva perso con la rivolta in Tunisia. I moti tunisini avevano offuscato l’influenza e il consenso francese nell’area, e questi, agli occhi di Parigi, dovevano essere recuperati da qualche altra parte. La Libia offriva un’occasione ottima a prescindere da quelli che erano gli interessi dei vicini di casa, cioè noi. Non bisogna poi dimenticare la questione energetica. Tra i colossi italiani e francesi del settore non c’è mai stata una corrispondenza nel modo di inserirsi, ma sempre una competizione con, a tratti, toni fuori dalle righe. A ciò va poi aggiunto il tentativo di Sarkozy di recuperare il consenso interno. L’indice di gradimento del presidente stava precipitando e da qui la scelta di optare per un gesto napoleonico al fine di aumentare la propria popolarità. Tutte queste cause convergenti hanno convinto la Francia a intervenire.

E come è possibile che l’Italia abbia seguito il presidente francese in questa impresa con interessi così lontani dai nostri?

Noi siamo caduti nella trappola. Certo, a posteriori è molto facile fare delle considerazioni di questo tipo; eppure già allora a qualcuno era chiaro quello che si poteva fare.

Ci spieghi meglio.

L’esperienza insegna che operazioni di tale natura in questo spicchio di mondo non si possono concludere con successo senza l’appoggio italiano. Nel passato non siamo stati dei semplici comprimari, ma piuttosto degli attori indispensabili. Se ne accorsero gli Stati Uniti quando, nel 1994, volevano tenerci fuori dal Gruppo di contatto nei Balcani, con la scusa che eravamo un Paese confinante e che in passato eravamo stati occupanti, come se lo stesso non valesse per la Germania. Fu l’allora ministro degli Esteri, Susanna Agnelli, a far capire ai nostri alleati che quelle operazioni non si sarebbero potute concludere con successo senza le nostre basi, e che quindi potevamo avere un’importante voce in capitolo.

Crede che in Libia sia mancata questa consapevolezza?

Penso proprio di sì. Gli americano erano piuttosto restii a impiegare le loro forze in un sostegno diretto, mentre gli inglesi non disponevano di portaerei. La Francia aveva invece la sola Charles De Gaulle e l’ipotesi di far partire altri aerei dalle proprie basi, con tre o quattro rifornimenti prima di arrivare nelle aree operative, avrebbe significato dissanguarsi con risultati insignificanti. L’Italia era dunque indispensabile, ma qualcuno di noi non lo sapeva e sosteneva che non potevamo esimerci dal seguire gli alleati. Così non era.

Il suo incarico come capo di Stato maggiore della Difesa terminò alcuni mesi prima dell’intervento. Come si sarebbe comportato?

Non lo so. Ma certamente avevo la consapevolezza che la partecipazione italiana fosse indispensabile per quell’intervento. Ciò era per me chiarissimo, ma allora era importante che lo fosse ai decisori politici, molti dei quali invece non avevano tale consapevolezza. Essa avrebbe comportato per il nostro Paese non un ruolo ancillare, ma un ruolo da protagonista o quantomeno da comprimario. Ciò avrebbe voluto dire poter decidere le modalità dell’intervento.

Considerando dossier delicati come la missione in Niger o l’accordo Fincantieri-Stx. Cosa ci lascia la vicenda libica nel rapporto tra Parigi e Roma?

Ci lascia l’amaro in bocca. Ci fa capire quanto sia difficile evidenziare interessi comuni tra Paesi che invece dovrebbero ricercarli. Sono ad esempio convinto che nell’Africa sub-sahariana e in quella mediterranea ci sia una rilevante convergenza tra Italia e Francia. Eppure, sembra che sia difficile farla emergere. Noi abbiamo di certo le nostre responsabilità, ma va anche notata la volontà francese di non consentire ad altri Paesi di assumere ruolo di importante comprimario in un’area che considerano di loro interesse esclusivo. Nel Sahel c’è già una presenza tedesca, ma in subordino rispetto a quella francese. Allo stesso modo lo sarebbe la nostra; eppure sembra che con noi i francesi abbiano delle resistenze maggiori che si manifestano in tanti modi. Un altro esempio è proprio il caso Fincantieri-Stx: andavano bene dei proprietari sudcoreani ma non italiani. Questo deve farci riflettere.


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