Eppur si muove. Il lavorio di Luigi Di Maio sta funzionando. Risulta vincente l’approccio – innovativo per la tradizione istituzionale italiana – di affrontare i negoziati per la presidenza delle Camere in trasparenza, anche con le consultazioni pressoché ufficiali dei due capigruppo. Come per la teoria della profezia che si autoavvera, il Movimento 5 Stelle si è posto a capo della regia di questa nuova legislatura. Checchè ne dicano molti politici e non meno numerosi giornalisti, il leader di Pomigliano d’Arco non vuole andare alle urne. È, sì, pronto a questa evenienza ma il suo obiettivo è dimostrare al Paese la sua capacità di non tradire il mandato ricevuto e di riuscire a farsi carico dell’architettura di un sistema di alleanze (basate sui programmi) in grado di assumersi tutte le responsabilità derivanti dal voto del 4 marzo.
La prova della serietà dello sforzo e dei primi successi che sta ottenendo la si può trovare nel Pd. Matteo Renzi nel dimettersi dalla segreteria del partito aveva lasciato una indicazione quasi testamentaria: restare all’opposizione e comunque nessuna alleanza con i discepoli di Beppe Grillo. La linea, in qualche modo passata in Direzione e ancora stamattina ribadita dal “reggente” Maurizio Martina, è stata già superata. A rompere gli argini è stato Dario Franceschini. Il ministro è un abilissimo conoscitore e manovratore della politica. Nella sua intervista al Corriere della Sera di pochi giorni fa ha usato il tema delle riforme come grimaldello per aprire una porta. La costruzione del pensiero era così raffinata che in pochi all’inizio ne hanno colto la portata effettiva. I segnali però si sono fatti man mano più evidenti. Che sia un posizionamento suggerito dal Colle (come bisbigliano in tanti) o che sia un moto autonomo basato sul ragionare a mente fredda, il fatto è che il Pd ha nei fatti superato la pregiudiziale pentastellata. Persino l’iper-loquace Carlo Calenda (le cui quotazioni vengono date al massimo ribasso dentro e fuori il partito) ha fatto una inversione ad U. Lui che aveva tuonato contro la possibilità di una intesa con Di Maio ieri l’ha non solo messa nel conto ma persino auspicata (se si trattasse di un governo di transizione, come se ci fossero alternative considerata l’infinita transizione italiana). Sic transit gloria mundi.
Come in un gioco degli specchi, il Movimento si trova quindi nella situazione, positiva ma complessa, di avere un alleato “ufficiale” che è la Lega che esprime sostegno salvo voler provocare il ritorno alle urne e di avere al tempo stesso un avversario “ufficiale” che dietro le dichiarazioni roboanti di prese di distanza pensa (e lavora) ad un’intesa. Nel mezzo una leadership giovane e capace oltre ogni aspettativa che deve fare i conti con il fuoco amico. Dentro i pentastellati si registrano infatti forte turbolenze. Se davanti al capo sono tutti scodinzolanti, alle sue spalle fanno partire missili terra-terra contro di lui e soprattutto contro i suoi collaboratori, specie quelli incaricati di tessere il filo del dialogo.
Insomma, nulla è come appare. Di Maio lo sa ed anzi lui stesso, per certi versi, ha saputo fare in questi anni di necessità virtù. In questo puzzle dinamico resta una incognita: Forza Italia. Berlusconi è uscito indebolito dal voto degli italiani. Si è sentito tradito dai suoi elettori (ma se non ci fosse stato lui FI non avrebbe preso più voti del partitino di Fitto) e dai suoi (ex) fedelissimi. A parte Gianni Letta, Antonio Tajani, Mara Carfagna ed un gruppo di deputati e deputate, tutti gli altri sembrano aver comprato il biglietto per salire sul traghetto di Matteo Salvini. È davvero così o è solo apparenza? Chissà. Fatto sta che il fondatore del centrodestra italiano vuole riprendere in mano le redini del suo partito e se possibile della coalizione. Il suo gioco con Salvini (e viceversa) è fatto di abbracci e di “pugnalate” (politiche, sia chiaro). Alleati e anche avversari. Una relazione difficile in cui nessuno vuole rompere ma dove entrambi vogliono primeggiare, peraltro con due obiettivi distinti (il leghista vuole tornare a votare per completare l’Opa mentre l’ex Cavaliere preferisce giocare in tempi più lunghi, almeno due anni).
Il cambio di rotta del Pd, se si consoliderà, sarà di aiuto anche per Berlusconi per quanto si rifletta sul fatto che probabilmente il ruolo di responsabilità nazionale potrebbe attagliarsi maggiormente allo stesso Berlusconi più che a Franceschini e compagni. Il gioco degli specchi, dunque. Con due piccole e provvisorie certezze. Di Maio è di gran lunga più vicino alla meta di un “suo” governo e potrebbe lui stesso, alla fine, scegliere con chi fare il pezzo di tragitto prossimo venturo: con il Pd de-renzizzato (che non avrà però grandi numeri) o con la strana coppia Salvini-Berlusconi (sapendo che sarà difficile avere solo uno dei due principali soci del centrodestra). Il Paese, per quanto diviso politicamente ed economicamente, di certo chiede una solo cosa: avere una soluzione istituzionale in tempi rapidi, e se possibile resistente. Il Quirinale lo sa bene.