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Phisikk du role. Pd, ovvero beati gli ultimi che saranno i primi (forse)

Una sistemazione filosofica coerente all’espressione “eterogenesi dei fini” si deve all’empirista tedesco Wilhelm Wundt (1832-1920) che, riprendendo una linea di pensiero già svolta da Giovanbattista Vico e Machiavelli, rendeva conto del verificarsi di conseguenze non intenzionali a causa di azioni intenzionali. Insomma: effetti collaterali indesiderati dell’agire umano, tanto per ricordare che non siamo esseri onnipotenti.

In politica avviene. Per le leggi elettorali, innanzitutto: si confezionano con l’aspettativa di un aiutino e poi finiscono per punire chi le ha concepite. Così è anche per i governi. Prendiamo il quadro del dopo voto italiano: vincono in due, Cinque Stelle e Lega, e perde sicuramente uno, il Pd. Però, per l’eterogenesi dei fini – e per l’insufficienza dei numeri – chi ha in mano le chiavi del governo non sono i vincitori, ma il perdente. Il Pd. È così strano? Neanche troppo, visto l’assetto rigorosamente tripolare delle forze in campo. La direzione del Pd di ieri è stata da manuale, nel senso della consapevolezza di queste dinamiche. Forse gli istinti erano altri: e chi volete che abbia voglia oggi di rifarsi una campagna elettorale nel giro di tre mesi, quanto durerebbe la legislatura senza un governo? Forse la parte che ha trovato la voce di Emiliano per dichiarare la sua voglia di accasarsi coi Cinque Stelle ha una base di supporter sommersi più ampia. E forse non è così sparuto il gruppo dei parlamentari che trovano non blasfemo un aiuto (parliamo comunque di astensioni) a governi di destra a guida diversa dal divisivo Salvini. Giorgetti, per esempio. Ma l’una o l’altra di queste propensioni – che ovviamente ognuno potrà leggere come adesione all’autoassolutorio richiamo alla responsabilità del Capo dello Stato – spaccherebbe il Pd in due parti. Per cui appariva del tutto ineluttabile la convergenza sul mantra finale: né con la Francia né con la Spagna. Che poi era la linea del segretario dimissionario, personalità che resterà a dare le carte con effetti tanto più pesanti quanto più non sarà in gioco in prima persona.

La partita nel Pd è appena cominciata e, francamente, non mi dispiace l’idea non vedere più agitare il ricorso salvifico alle primarie per la scelta del segretario, una procedura che è sempre stata solo una fiera propagandistica e mai un meccanismo di selezione vero: le primarie stanno alla cultura politica italiana come la mostarda sugli spaghetti di Nando Meliconi nell’Americano a Roma di Albertone (1954). Del destino prossimo futuro del Pd, preso in una morsa che da un lato pressa per il completamento di una metamorfosi macroniana e dall’altro avverte richiamo della foresta (forse scambiando la nobile antica foresta con la giungla abitata oggi dai Cinque Stelle) si vedrà.

Restano gli adempimenti istituzionali, che implicano voti, dunque scelte politiche. Alla Camera potrebbe profilarsi un candidato presidente Cinque Stelle. Forse il voto del Pd potrebbe essere superfluo, se Salvini e Di Maio raggiungessero l’accordo. E forse no. E poi il Governo. Ma questa è una storia più lunga, per una nuova puntata. Del resto la Merkel non ha ci ha messo sette mesi a sciogliere i nodi della sua Grosse Koalition? E noi che siamo, meno della Merkel?


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