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Il rebus siriano si complica con l’incognita americana

Nato golfo muro

L’America procede verso un passo di lato in Siria? È quanto si intenderebbe dal discorso che il presidente Trump ha pronunciato giovedì in Ohio, nel quale ha affermato, tra le altre cose, che “stiamo uscendo dalla Siria, credo, molto presto. Lasciamo che altre persone se ne prendano cura ora. Molto presto, molto presto, ce ne andremo”.

Con queste dichiarazioni, il capo della Casa Bianca ha colto impreparati i suoi sottoposti e i vari dipartimenti, i quali si comportano ancora come se fossero valide le affermazioni fatte dall’ex segretario di Stato Tillerson a gennaio il quale, delineando una nuova strategia del paese per il Levante, sostenne che “è vitale per gli Stati Uniti rimanere impegnati in Siria”. Il portavoce del Pentagono Adrian Rankine-Galloway ha dichiarato ieri che “la missione del dipartimento della Difesa di sconfiggere l’Isis non è cambiata”.

Secondo un membro del governo sentito da Reuters, la nuova posizione di Trump sarà discussa in un incontro del Consiglio di Sicurezza Nazionale in programma la prossima settimana e dedicato alla campagna contro lo Stato islamico in Siria e alla presenza dei circa 2 mila soldati Usa. In quel contesto è probabile che vi sarà una discussione accesa in cui emergeranno posizioni diverse da quelle del presidente, come quelle di chi fino ad oggi ha sostenuto che fosse necessaria una presenza prolungata delle truppe in Siria per non permettere allo Stato islamico di rialzare la testa.

È vero che Trump ha già fatto sapere che “una volta che l’Isis e ciò che ne rimane sono distrutti gli Stati Uniti cercheranno di fare in modo che altri paesi svolgano un ruolo più ampio per garantire la sicurezza”. Le intenzioni del capo della Casa Bianca sarebbero serie: lo dimostra il congelamento di 200 milioni di fondi del Dipartimento di Stato per gestire la ricostruzione in Siria che erano stati allocati il mese scorso su impulso dell’ex segretario di Stato Tillerson. Due membri del governo hanno confermato alla stampa la decisione di Trump, mentre il portavoce del Consiglio di Sicurezza Nazionale ha dichiarato che “in linea con le direttive del presidente, il Dipartimento di Stato rivaluta continuamente i livelli di assistenza appropriati e come meglio possono essere utilizzati, cosa che facciamo in modo continuo”.

Ma il pensiero di Trump si scontra con quello di numerosi suoi consiglieri tra cui quello sentito anonimamente da Reuters, per il quale le forze americane dovrebbero restare in piccoli contingenti in Siria per almeno due anni per assicurarsi che le bandiere nere non tornino a sventolare in qualche angolo del paese e soprattutto per non lasciare mano libera all’Iran.

Tra coloro che ritenevano opportuna una presenza prolungata delle truppe Usa in Siria c’erano, oltre a Tillerson, anche l’ex Consigliere per la Sicurezza Nazionale Herbert R. McMaster. Il licenziamento di ambedue rende più precaria ora la posizione di chi è favorevole ad un impegno a lungo termine in Siria. Non è nota invece la posizione delle new entries Mike Pompeo e John Bolton, che avendo una reputazione da falchi potrebbero esprimere posizioni originali in materia.

Se gli Stati Uniti meditano veramente una exit strategy dalla Siria, è una pessima notizia per tutti gli alleati – Israele e Arabia Saudita in primis – che avevano sperato in una presenza a lungo termine dei soldati americani in funzione di contenimento rispetto alle mire espansionistiche dell’Iran, vero dominus del paese. L’eventuale riposizionamento americano, se ci sarà, non rimarrà dunque senza conseguenze.


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