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Il coraggio di Lucia Valenzi e l’amore per la figlia Libara in una lettera accorata

Libara Valenzi

Provo una certa difficoltà a scrivere queste poche righe.
Sino ormai più di 10 anni che conosco Lucia Valenzi e Libara, la sua unica figlia tanto amata, l’ho vista crescere e da bambina diventare donna.
La notizia della sua morte, il 23 marzo, mi ha scosso e lasciato attonito. Sapevo quello che stavano passando ma mai avrei potuto immaginare cosa sarebbe potuto accadere.
Questa triste storia mi ha fatto capire come dopo la legge Basaglia si sia creato un vuoto.

Le famiglie nelle quali c’è una persona con problemi psichici sono abbandonate a se stesse. Come scrive Lucia in questa accorata lettera che indirizza alla figlia ” il sistema psichiatrico-burocratico ci ha abbandonato senza rimorsi alla nostra sorte.”

Lucia, con un pudore rispettato dai giornalisti, ha chiesto che i media non dessero notizia della notizia in quelle tragiche ore.
Oggi ha scelto di rendere nota la notizia e, su sollecitazioni dei suoi tanti amici, di organizzare un’iniziativa di ricordo aperta alla città.

L’ “Incontro in memoria di Libara” si terrà a Napoli martedì 10 aprile presso la Fondazione Valenzi, al Maschio Angioino, dalle 17 alle 18 e 30.
La ricorderanno con brevi performances artistiche gli amici, in particolare il fratello da parte di padre Abdou Fall, il coro dei Vandalia, Rossella Sicignano ed altri.

Lucia ha anche scelto di rendere pubblica su Facebook (a questo link) la lettera che ha scritto a caldo nelle notti che hanno preceduto la cerimonia funebre e che trovate di seguito.

Libara,
ora che sono stordita dopo i primi giorni immediatamente successivi a quando ti sei lanciata nel vuoto da un’altezza senza scampo; ora che
ho accantonato il pensiero di interrompere la mia vita svuotata di senso senza di te; ora che ho ricevuto un po’ di anestetico e il
calore confortante degli amici intorno;
Ora, Libara, anche solo per un attimo voglio dimenticare che non credo a una seconda possibilità, voglio immaginare di incontrarti e di parlarti e di ascoltarti. Ho aperto il tuo cassetto in quella stanza dove avevi deciso di appoggiarti, lontano da me, ho aperto il cassetto delle medicine, tutte intatte.

Possibile che non hai creduto di doverti curare? E perché sembravi e facevi credere che invece eri d’accordo?

Libara quante domande vorrei farti!

La più importante potrebbe essere non una domanda ma piuttosto una preghiera: dammi un po’ di tempo, permettimi di tentare qualche altra cosa, non avere questa terribile fretta. Con un po’ di tempo in più forse avrei potuto trovare la strada giusta per combattere quel demone che ti aveva invaso.

So che un amico te lo ha detto, ora te lo ripeto: sei stata frutto di amore. Una relazione breve, due anni, con tuo padre, africano dal Senegal, che anche lui non è più fra noi da un anno e mezzo. Una relazione in cui ho sinceramente creduto, interrotta proprio dalla tua nascita, dal bisogno di fare programmi e progetti di vita che, che evidentemente non erano possibili, dal momento che lui aveva deciso di non condividerli, ma comunque una relazione d’amore.

Puoi rimproverarmi che irragionevolmente non mi sono fermata davanti a niente. Puoi rimproverarmi che ho voluto rompere una barriera dopo l’altra sulla tua pelle: la sedia a rotelle, l’età di 40 anni, troppo avanzata per avere un figlio, andare a vivere in autonomia da sole senza il padre, ma anche fuori della casa dei nonni, e altre ancora.
Si hai ragione, ho sfidato troppe situazioni e pensato di poter abbattere troppi ostacoli. E gli dei si sono giustamente vendicati.

Eppure la bambina deliziosa che eri faceva credere che tutto era andato bene. Ero fiera di esserci riuscita e avere dato ai nonni una gioia enorme nell’ultima parte della loro vita. Hai goduto della loro devozione incondizionata e hai dato a me e a loro vera felicità.

Forse la perdita dei nonni verso i 12-14 anni ti ha spinto verso quelle crisi di rabbia? Tutti gli adolescenti sono arrabbiati, ma io sentivo che c’era qualcosa di più e me lo hai confermato, ad esempio con quella inquietante abitudine di graffiarti e tagliuzzarti la pelle.

Cosa avrei potuto fare per impedire che da quel momento in poi ti impegnassi a fare terra bruciata intorno a te? A costruire per poi distruggere.
Ho creduto per un momento che eri sola e non avevi nessuno con cui confidarti e invece avevi amicizie belle e profonde. Ragazzi e ragazze che ti piangono disperatamente. Perché il mio amore, il loro amore non ti ha trattenuto? Non ti ha trattenuto nemmeno il gusto per il cibo buono, per la musica buona, per tante altre cose buone della vita, di cui spesso abbiamo goduto anche insieme. E intanto dimostravi di saper creare delle cose dalle tue mani, di avere una voce bella per cantare, un corpo pieno di ritmo per danzare, un gusto fine per l’arte, una capacità, ahimè inutilizzata, per logica e scienze.

Negli ultimi anni ho assistito con terrore e in perfetta solitudine allo spettacolo di te che ti avvitavi in situazioni sempre di più senza via d’uscita.
Abbiamo tentato almeno cinque volte delle psicoterapie, ma non una è servita. Hai scelto di sprofondare in relazioni sempre più sbagliate in un gorgo di autodistruzione, ma tu lo scambiavi per il suo contrario: un volo verso la leggerezza. Si può pensare dall’esterno che la tua fine sia stata istantanea, ma noi due sappiamo che sei stata divorata progressivamente da questo male.
Eppure mentre morivi continuavi a trasmettere bellezza e gioia.

A settembre la polizia ferroviaria di un Comune del Lazio mi chiamò per avvisarmi che ti avevano trovato che camminavi a piedi nudi lungo i binari, che avevi resistito e ti avevano portato a forza in ambulanza all’ospedale di Frosinone. Ricordavi bene in seguito che erano due notti e un giorno che vagavi senza meta, in preda alle allucinazioni e nel delirio assoluto. Arrivai in auto di corsa, ma mi mandarono a casa: mi fu proibito vederti e sentirti per cinque
interminabili giorni, mentre eri sedata e legata per il Trattamento Sanitario Obbligatorio, poi ho sentito la tua voce come venire da un luogo lontano, irraggiungibile.

Ancora una volta ho sperato potesse essere quella la porta per uscire dall’inferno, accedere finalmente a delle valide cure.
Chissà in futuro se troverò la forza per dire al mondo come il sistema psichiatrico-burocratico ci ha abbandonato senza rimorsi alla nostra sorte.

Vedo che non mi rispondi. Del resto cosa potresti dirmi?
Se non che la tua mamma non ce l’ha fatta a salvarti.

Segue una biografia di Libara:
Libara Valenzi, figlia di Lucia Valenzi e nipote dell’ex sindaco di Napoli e leader del PCI Maurizio Valenzi, è nata a Napoli l’8 febbraio del 1994. Ha frequentato e conseguito il diploma di maturità presso il Liceo Classico Vittorio Emanuele di Napoli. Iscritta al corso di Laurea in Conservazione e Restauro dei Beni Culturali dell’Università Suor Orsola Benincasa. Come tirocinante ha lavorato con la società Roma Consorzio al restauro della fontana del Nettuno in piazza Municipio ed alla mostra al MANN sui 2000 anni dalla morte di Augusto

“Augusto e la Campania”. Appassionata di musica si era formata per l’educazione musicale nella prima infanzia con l’Associazione AIGAM ed era membro del Coro amatoriale dei Vandalia.

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