Da qualche mese si avvertiva che qualcosa nel rapporto tra le due Coree potesse accadere in tempi brevi, anche se si trattava certamente più di sensazioni che di certezze. L’escalation degli atteggiamenti aggressivi da parte di Kim Jong-un e le risposte sempre più determinate dell’amministrazione americana aumentavano le tensioni e le preoccupazioni della popolazione sudcoreana, lasciando supporre, o almeno sperare, che potesse prefigurarsi qualche intervento teso ad alleggerire, anche psicologicamente, la pressione sulla Corea del Sud e sull’intera opinione pubblica mondiale, legittimamente terrorizzata dall’ipotesi di una guerra nucleare.
Le olimpiadi invernali di Pyeongchang hanno costituito l’occasione per gesti distensivi tra le due parti. La presenza della sorella di Kim, lo scambio di saluti con il Presidente Moon, le dichiarazioni che sono seguite e il nervosismo statunitense non vanno sottovalutati.
Sono fatti che, se letti con attenzione, rafforzano l’ipotesi di una regia sapiente orchestrata da Pechino – probabilmente con la Russia nelle vesti di spettatore interessato – proprio nella prospettiva, sulla quale abbiamo insistito, di un altro tipo di interesse, cioè l’allontanamento degli USA e della loro sfera di influenza dalla regione. Infatti, una progressiva e pacifica soluzione bilaterale del conflitto ridurrebbe di molto la necessità di una presenza americana nella penisola coreana e, con essa, nell’intero quadrante strategico dell’Asia nord-orientale, fino a renderla inutile, se non dannosa. Questa ipotesi potrebbe essere proprio la molla che spinge oggi la Cina a intervenire a favore di una pacificazione nella penisola coreana, nella speranza che Washington sia, alla fine, costretta a lasciare mano libera alle mire egemoniche di Pechino sul Mar cinese orientale e meridionale. Con il corollario, non secondario, di un enorme ritorno di immagine per la stessa Cina, che acquisirebbe il merito di avere disinnescato la minaccia di una guerra nucleare che terrorizza l’umanità.
Si potrebbe dire che la Cina debole e ripiegata su se stessa di alcuni decenni fa, aveva avuto la necessità di creare e mantenere uno stato-cuscinetto per difendersi dallo strapotere politico, economico e militare statunitense, fino a fare della Corea del Nord una potenza nucleare, unico vero deterrente possibile per Washington. Per la Cina di oggi, che ormai compete ad armi pari con gli Stati Uniti, la potenza di Pyongyang può costituire un boomerang e giustifica la permanenza americana nella regione, reale pietra d’inciampo per il suo disegno di controllo sull’estremo oriente. Allora, meglio disinnescare la minaccia, pur di non darne merito a Trump. Insomma, oggi meglio la pace che la minaccia armata.
Ma poiché una grande vittoria politico-diplomatica di Pechino è rischiosa soprattutto per gli Usa, assistiamo oggi a mosse che sconvolgono ancora una volta il quadro. Movimenti che sembrano affidati a tre attori: Kim Jong-un, il Presidente sudcoreano Moon Jae-in e Donald Trump.
Il primo annuncia la decisione unilaterale della sospensione di ogni esperimento missilistico, il secondo riempie Seul di giganteschi manifesti inneggianti alla pace tra le due Coree, il terzo sembra pronto a volare a Pyongyang, primo Presidente americano della storia a compiere un gesto simile. La Cina sembra messa alla finestra.
Non è facilissimo capire cosa stia dietro questo veloce cambiamento di scenario, nel quale alcuni attori hanno certamente da guadagnare, altri da perdere. Kim è un abilissimo tattico e, se fa questa mossa, significa che sta ottenendo quanto cercava e forse anche di più. Che cosa? Certamente il consolidamento della propria figura di leader all’interno del proprio popolo, l’obiettivo che gli sta più a cuore; inoltre, una prima legittimazione internazionale, sicuramente corredata da importanti aiuti economici (resta da capire da parte di chi) che gli saranno indispensabili per accelerare la crescita del proprio Paese.
Perché questa crescita è fondamentale? Perché l’iniziale tentativo di modernizzazione dell’economia nordcoreana messo in atto dallo stesso Kim, che ha finora dato ai propri cittadini la sensazione di un enorme progresso dopo decenni di povertà e marginalizzazione, potrebbe rivelarsi un boomerang formidabile nel momento in cui si andasse realmente verso una reale ripresa di rapporti tra le due Coree. Questo metterebbe in drammatica evidenza l’enorme divario di sviluppo tra i due Paesi, di fronte al quale il popolo nordcoreano potrebbe cambiare decisamente il proprio atteggiamento verso il proprio leader. Ci si deve, quindi, aspettare da parte del dittatore una politica di spesa sociale e di liberalizzazione dell’economia per attrarre investimenti, strategie che hanno bisogno di un ruolo consolidato nello scacchiere geopolitico e di una disponibilità di risorse importante da parte dello Stato.
Moon deve assolutamente risolvere il problema del rapporto con Pyongyang, percepito dai cittadini sudcoreani come elemento di grave instabilità e come una minaccia quotidiana alla propria sicurezza. Qualsiasi mossa possa portare in questa direzione sarà da lui sostenuta, non dimenticando peraltro che la presenza militare statunitense nel proprio Paese non potrà essere eliminata in tempi brevi. Deve, inoltre, fare i conti con la grande diffidenza che l’opinione pubblica sudcoreana – e non solo essa – nutre nei confronti del dittatore di Pyongyang.
Trump vede avvicinarsi le elezioni di medio termine e ha bisogno di un grande successo in termini di politica internazionale, che finora gli manca. Bisognerà vedere fino a che punto possa (o gli sia consentito) lavorare per una soluzione di reale pacificazione che potrebbe rendere ingiustificata la permanenza statunitense nella penisola coreana. Fatto, questo, che lascerebbe soli, dopo decenni, i sudcoreani e che, soprattutto, esporrebbe il Giappone ad essere l’unico baluardo della politica occidentale in Estremo Oriente.
Mentre la Russia, in questo momento, ha solo interesse a osservare gli sviluppi, visti gli altri numerosi fronti sui quali è impegnata, la Cina continua a perseguire l’obiettivo dell’allontanamento della sfera di influenza americana e occidentale nella regione e, in questo senso, una soluzione che realizzi le condizioni per un progressivo ritiro statunitense dalla penisola non può che vederla concorde.
Le ultime mosse, perciò, sembrano prestarsi a una lettura abbastanza lineare: una trattativa bilaterale Kim – Trump, con la benedizione esplicita di Seul e quella, implicita, di Pechino, pare essere un ottimo investimento per la stessa Cina – che potrebbe investire risorse economiche rilevanti a questo fine – e per la Nord Corea; una buona soluzione per la Corea del Sud, almeno nel breve periodo; un obiettivo tatticamente fondamentale per Trump (che difficilmente ragiona in termini di strategia); un grattacapo in meno per Putin e, comunque, una non sgradita limitazione della sfera di influenza americana nel Far East. Quindi, una soluzione win-win per tutti questi attori. Con buona pace del Giappone, unico soggetto fortemente preoccupato dell’indebolimento della propria posizione, che lo spingerebbe ancora di più sul percorso di uscita dalla neutralità intrapreso da Shinzo Abe già da tempo. L’indebolimento giapponese non sarebbe, peraltro, affatto sgradito alle due Coree a causa delle ruggini che permangono fin dalla seconda guerra mondiale, e questo è un altro elemento di cui tenere conto.
Non è da escludere, tuttavia, una lettura assai più dietrologica e complessa.
Immaginiamo che Kim voglia ancora alzare il prezzo con la Cina (e forse anche con la Russia) per ottenere ulteriori benefici: potrebbe aver deciso la mossa della sospensione unilaterale degli esperimenti per far capire a Pechino di avere ancora in mano il bandolo della matassa e a Mosca che un suo abbraccio con Trump non sarebbe certo un elemento vantaggioso per Putin, impegnato a investire enormi risorse nella propaganda antiamericana, che sarebbe costretto a riconoscere meriti a Washington. Il protagonismo di Kim oscurerebbe, inoltre, in breve tempo l’azione mediatrice di Moon rafforzando ulteriormente la propria immagine di fronte al suo popolo e conquistando progressivamente la fiducia dei sudcoreani. Egli si potrebbe porre, inoltre, come interlocutore diretto di Tokio, magari con qualche mossa rassicuratrice. E un rapporto diretto e bilaterale tra Nord Corea e Stati Uniti potrebbe addirittura, nel tempo, rafforzare la presenza americana nella regione: è presumibile, infatti, che Trump possa essere disponibile a proporre Kim un piano di aiuti e di investimenti americani in Nord Corea, che giustificherebbe una presenza meno militare ma ancora più forte in termini economici proprio a ridosso della Cina. Insomma, Kim a questo punto potrebbe fare la politica dei due forni, vendendosi al miglior offerente: conoscendo l’abilità e la spregiudicatezza del leader nordcoreano, questo scenario è tutt’altro che irrealistico.
Insomma, sullo sfondo resta sempre il confronto tra Washington e Pechino, che non si combatte solo a colpi di dazi, ma anche sullo scacchiere, delicato e complesso, delle influenze geopolitiche. Uno scacchiere sul quale Kim Jong-un, partito come pedone, ha conquistato almeno il ruolo del cavallo.