Scrive Panikkar (Pluriversum, 2018): “Non esiste oggi nessuna teoria endogena che sia in grado di unificare le società contemporanee, e questo ruolo non può essere svolto da nessuna ideologia imposta o importata. Una fecondazione reciproca delle culture è un imperativo umano della nostra epoca.”
Il mio ri-flettermi nel “progetto di civiltà” parte da qui, dalla necessità di una “fecondazione reciproca”. Troppo spesso ci siamo illusi che altri potessero cambiare in base alle ragioni che qualcuno pensava fossero “giuste” in chiave universale; siamo ancora prigionieri della imposizione di “universali culturali” come unica risposta possibile a tutte le domande di senso.
Affinché si possano fecondare reciprocamente le culture occorre conoscerle. Il primo passo nel “progetto di civiltà”, che si costruisce vivendolo (nel sentimento della storia), è la conoscenza. E conoscere non è mai superficiale perché è con-naitre, nascere insieme, ri-nascere in ogni realtà-che-è. In sostanza, noi conosciamo ogni qual volta ci poniamo nella frontiera di ogni altro-DI-noi, laddove nulla ci è estraneo ma tutto ci riguarda e ci chiama a una responsabilità al contempo personale e globale.
Ci rendiamo conto, ogni istante di più, che l’intero impianto sul quale abbiamo fatto evolvere la globalizzazione presenta limiti strutturali, crepe profonde non più “aggiustabili” con semplicistiche operazioni di “maquillage”; qui c’è da ri-pensare per ri-fondare. In se stesso, il concetto di globalizzazione è un “universale culturale”; ci siamo illusi che bastasse spingere sulla tecnologia per risolvere i problemi profondi della condizione umana che, invece, si sono aggravati. Quella imprevedibilità che vive in ciascuno di noi, non compresa e anzi rifiutata, è esplosa e ci torna addosso come una valanga. Fecondare le culture, allora, è il metodo che può aiutarci a ri-trovare la globalità nella globalizzazione; se nessuno può farcela da solo, la prospettiva progettuale chiede una con-divisione profonda delle complessità del “vivente complesso”.