Democrazia digitale? Parola agli imbecilli, come diceva Umberto Eco? Liberi e uguali su tutto? È vero che, abbattute le barriere spazio-temporali, non ci resta che pensare e tradurre in dati e il mondo diventa piccolo quanto basta per il minuscolo schermo dello smartphone? Macché! La Rete è solo apparentemente un luogo di libertà di espressione: certamente abbiamo la sensazione di poter dire quello che vogliamo quando vogliamo. Ma è realmente così? “A cosa stai pensando?” recita il celebre form di inserimento di Facebook ed ecco il cavallo di Troia secondo il gruppo di ricerca Ippolita – più unico che raro, niente nomi.
“La confessione è uno dei più potenti dispositivi di manipolazione e colonizzazione dell’immaginario messi in campo dal web. Nell’illusione di divertirci, incontrarci, conoscerci o di promuovere i nostri progetti, lavoriamo per l’espansione di un mercato relazionale che mescola pratiche narcisistiche e pornografia emotiva”.
Non sono chiacchiere, ma scienza: la dopamina è uno dei neurotrasmettitori più famosi del nostro sistema nervoso. Una ricerca della Rutgers University del New Jersey ha stabilito che circa l’80% dei post sui social media sono frutto di esperienze che le persone stanno vivendo nel momento stesso della pubblicazione. E un’altra ricerca, questa volta di Harvard, indica come, quando parliamo delle nostre esperienze e delle nostre emozioni, il cervello si ricompensi rilasciando una quantità di dopamina paragonabile a quella che si ottiene dal sesso, dal buon cibo o dall’esercizio fisico. Insomma: condividere un’emozione positiva fa accrescere il nostro senso di piacere. È per questo che ci piace immortalare un momento di felicità attraverso una foto, uno status o un tweet. Ed è per questo che cadiamo, letteralmente, nella Rete, in quella che Ippolita definisce servitù volontaria all’algocrazia, “un esperimento socioeconomico e culturale incardinato su algoritmi. Perché i social commerciali sono macchine. Macchine per formare soggetti oltre che strumenti per disegnare e profilare caratteri. In ogni caso – è la teoria di Ippolita – si tratta di sistemi di apprendimento basati sull’addestramento tramite risposte indotte, per creare automatismi performativi”.
Niente nomi, per carità, ci spiegano da Ippolita “siamo un gruppo e come tale vogliamo proporci”. Dopodiché, la sensazione che quando si è padroni della Rete – nel senso tecnico e tecnologico – è meglio non mettersi troppo in mostra, rimane, ma in questo caso senza retrogusti di ambiguità. Anche perché devi parlare chiaro e colpire duro senza paura di rappresaglie: “La Rete offre una facciata di apertura, di orizzontalità, di trasparenza che rimanda semanticamente a un tipo di esperienza democratica anche se dietro le quinte sono al lavoro algoritmi messi a punto secondo logiche private di profitto ed egemonia. Naturalmente la responsabilità non è delle procedure iterative, gli algoritmi appunto, bensì di chi li crea e li applica, e di chi accetta di delegare la propria esperienza del mondo e di sé, magari per sentirsi più libero. Le nuove tecnologie ci stanno dando la libertà di non dover scegliere. Non è fantastico?, recita una recente campagna pubblicitaria. No, non è fantastico”.
Certo che non è fantastico. Anche perché in ballo non ci sono solo prodotti e servizi, ma pensieri, immaginario collettivo, sistemi di potere globali. Sottili, impalpabili, addirittura invisibili e di una potenza tale da renderli refrattari a qualsiasi legale e legittima contromisura. “Decisioni che obbediscono a scelte etiche e politiche, oltre che economiche, e, come queste, restano implicite se non si fa un lavoro di scavo e decostruzione, così la forma delle implementazioni, dei filtri, dei continui aggiustamenti di queste catene di algoritmi, restano segreti industriali, anche perché non c’è nessun interesse a mostrarli. Perché dovrei interessarmi di come funzionano le viscere di Amazon, per esempio, visto che funziona benissimo, ed è capace di offrirmi merci che io ancora non so di desiderare?”. Il sistema è stato progettato per includere tutti, bambini compresi (a cominciare?), non come strumento di emancipazione culturale e sociale, ma perché si tratta di un prodotto di consumo globale.
Ed ecco la proposta di Ippolita, i laboratori di pedagogia hacker: “Riscoprire il valore politico e formativo dell’antiproibizionismo, perché se il social è stupefacente, proibire non è una soluzione efficace. Dell’hacker abbiamo scelto il tratto antiautoritario e diretto dell’apprendere senza maestri, che si affida in primis alla curiosità; l’approccio non è usarlo, ma capire come è fatto, come funziona, far emergere l’hacker che si nasconde in ognuno di noi, dargli valore e aiutarlo a crescere; essere se stessi, raccontare la verità”. La posta in gioco è ancora più alta, arriva fino a lassù: “Pulsioni metafisiche plasmano i confini della nostra anima digitale. Si manifesta con forza il desiderio della tecnologia di sostituirsi alla religione, la volontà di organizzare l’esperienza in un complesso di liturgie e precetti mai espliciti che diventano comandi a cui obbediamo inconsapevoli, ordini saldamente aggrappati alla memoria procedurale. In questo modo, ognuno può sentirsi libero, mentre esegue un programma di esercizi di delega cognitiva, ovvero sociale, psichica, vitale”. Ci piace il messaggio finale e lo condividiamo, appunto: il corpo digitale è un prolungamento del corpo analogico oltre i limiti organici. Siamo tutti cyborg.